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A tu per tu con la cronobiologia

La cronobiologia è lo studio dei tempi, anzi, dei ritmi, che influenzano i sistemi biologici. I ricercatori che la studiano prendono in analisi quanto succede nell’organismo nell’arco delle 24 ore, o in periodi più estesi caratterizzati da aspetti ciclici o ricorrenti. Ecco cosa ci racconta questa scienza a proposito degli orologi interni ai viventi, al di là dei tanti aspetti ancora misteriosi.

In Europa si discute da anni dell’abolizione dell’ora legale. Per molti lo stratagemma di spostare le lancette avanti o indietro per risparmiare energia non è più giustificato da tempo e i costi supererebbero i presunti benefici. Il problema non è solo politico ed energetico: l’ora legale può avere un impatto sulla salute. Il motivo? Ha a che fare con l’evoluzione.

Quasi tutte le specie terrestri – piante, microbi, animali, esseri umani inclusi – possiedono un orologio interno che “dà il passo” all’organismo. Alla base vi è un meccanismo molecolare che determina soprattutto il cosiddetto ritmo circadiano, della durata di circa 24 ore, e che è regolato da segnali ambientali tra i quali, principalmente, la luce solare. L’ora legale scombussola questo ritmo a partire dall’alternanza sonno-veglia a cui siamo abituati.

La disciplina che studia questo tipo di fenomeni si chiama cronobiologia. Nel 2017 il campo ha guadagnato il proprio premio Nobel per la fisiologia o la medicina, assegnato quell’anno proprio agli scienziati che hanno individuato il meccanismo molecolare alla base del ritmo circadiano. Le loro importanti scoperte poggiano tuttavia su secoli di osservazioni ed esperimenti precedenti.

Dalle piante agli animali

 Agli antichi non era sfuggito che i viventi sono sincronizzati rispetto alla durata del giorno. Per esempio, Aristotele nella sua Storia degli animali (IV secolo a.C.) aveva scritto del sonno degli animali, insetti compresi, e aveva osservato che, di notte, la luce di una candela non era sufficiente a svegliarli.

Come ha scritto il cronobiologo olandese Serge Daan (1940-2018), ci sono voluti però 2.000 anni per passare dalle osservazioni agli esperimenti veri e propri. E a sperimentare si è iniziato con le piante. Nel 1729 l’astronomo francese Jean Jacques Dortous de Mairan si era chiesto se i movimenti giornalieri delle foglie di Mimosa pudica fossero determinati dalla luce. La Mimosa pudica è una pianta comune nei vivai, dove si può notare che le sue foglie si chiudono al tatto (da cui pudica). Meno comune è osservarne l’apertura, al mattino, e la chiusura, la sera. Mairan ne aveva sistemato un esemplare nella completa oscurità e aveva osservato che, ciò nonostante, la mimosa continuava a comportarsi allo stesso modo. Altri scienziati fecero osservazioni simili in altre piante e, nel secolo successivo, negli animali. In molti, per esempio, l’andamento della temperatura corporea e di altre funzioni vitali segue un ciclo di circa 24 ore.

Orologio interno o sesto senso?

Torniamo alla mimosa pudica. Le condizioni dell’esperimento di Mairan escludevano fosse la luce a determinare la chiusura e apertura delle foglie, quindi non era irragionevole pensare che il comportamento potesse dipendere da una sorta di sesto senso sconosciuto. Altri scienziati ipotizzarono che nell’ambiente ci dovesse essere qualcosa che diceva agli organismi dove fosse il Sole rispetto alla Terra. Ma nel 1832 Augustin de Candolle, un botanico svizzero, fece crescere le piante di mimosa pudica in condizioni di luminosità continua. Osservandone i movimenti, Candolle si accorse che il loro ritmo non era più sincronizzato con precisione con il ciclo luce-buio, ma era invece più corto di un paio d’ore. Se la pianta fosse stata in grado di sincronizzarsi con la rotazione della Terra tramite un meccanismo sconosciuto, allora il suo ritmo non si sarebbe dovuto accorciare in condizioni di piena luminosità. Doveva più probabilmente esistere una specie di orologio interno alla pianta, che però si regolava in base alla luce.

Eppure, l’idea di un meccanismo interno che dava il ritmo ai viventi faticò ad affermarsi. La questione venne risolta solo nel Novecento, attraverso esperimenti ancora più raffinati. Per esempio la botanica Anthonia Kleinhoonte scoprì che le piante esposte a cicli di luce e oscurità sfasati rispetto a quello naturale acquisivano un nuovo ritmo, che durava sempre intorno alle 24 ore, ma non aveva più alcuna relazione con l’alba e il tramonto. Questo ciclo si manteneva poi per qualche giorno, passando a condizioni di totale luminosità o oscurità. Osservazioni simili confermarono anche negli animali l’esistenza dell’orologio interno, anche se di natura ancora ignota.

Gli esperimenti del bunker

Dopo la Seconda guerra mondiale gli studi sui ritmi biologici si intensificarono e la cronobiologia cominciò a strutturarsi in una vera e propria disciplina. Un punto di svolta fu il primo “Cold Spring Harbor Symposium on Biological Clocks (1960), a cui parteciparono i maggiori studiosi del campo. I dati raccolti fino a quel momento puntavano in una direzione precisa: tutte le specie si erano evolute in un ambiente regolato dall’orologio astronomico della rotazione terrestre e della rivoluzione intorno al Sole, quindi molte avevano sviluppato degli “oscillatori” interni per stare al passo con le variazioni esterne. I tempi erano maturi per gli esperimenti negli esseri umani.

Ci pensò nel corso degli anni Sessanta Jürgen Aschoff, biologo e medico del Max Planck Institute for Behavioral Physiology, in Baviera. Aschoff fece costruire una sorta di bunker sotterraneo, insonorizzato e impermeabile a qualunque segnale proveniente dall’ambiente esterno, e al suo interno iniziò a ospitare per qualche settimana alcuni volontari. Nel bunker, ovviamente, non c’erano orologi e i volontari si preparavano in autonomia i pasti negli ambienti assegnati. Di fatto anche la consegna di colazione, pranzo e cena avrebbe potuto contribuire a “regolare” l’orologio, mentre il presupposto dell’esperimento era escludere ogni indizio su che ora fosse.

Tutti i volontari persero completamente ogni cognizione del tempo. Continuarono a esibire un ritmo sonno-veglia, che nella maggior parte dei casi era di circa 25 ore, ma in alcuni si allungò di molto (circa 30-50 ore). Il ciclo della loro temperatura si mantenne invece sulle 25 ore, un numero vicino al ritmo circadiano. Grazie a queste osservazioni divenne chiaro che anche la nostra specie è dotata di un orologio interno, regolato attraverso gli stimoli. Tra questi vi sono anche segnali sociali oltre alla luce e all’oscurità. Per esempio, se gli scienziati stabilivano nel bunker delle routine che seguivano un ciclo di circa 24 ore, indicando quando coricarsi e mangiare, i volontari mantenevano il loro ritmo circadiano invariato, indipendentemente dalle condizioni di luce e oscurità.

Le applicazioni della cronobiologia

In seguito si scoprì anche la natura di questo orologio biologico. Doveva trattarsi di un meccanismo molecolare e il suo funzionamento doveva essere scritto nel DNA. Negli anni Settanta, gli scienziati cominciarono a selezionare mutanti di Drosophila melanogaster, i moscerini della frutta, che presentavano anomalie del ritmo circadiano. Si scoprì che le mutazioni riguardavano un gene ben preciso, battezzato period, che produce in modo ritmico una proteina nel cervello dei moscerini. La proteina si accumula durante la notte e si degrada durante il giorno. Da qui, la scoperta da Nobel: la proteina stessa, con l’aiuto di altri geni, bloccava la trascrizione del gene period nelle cellule, e da lì in poi il ciclo ricominciava. Questo meccanismo di autoregolazione è l’ingranaggio fondamentale dell’orologio biologico.

Numerosi meccanismi simili sono stati scoperti in diverse specie. Del resto, già Darwin aveva compreso che quei ritmi avevano un significato adattativo, perché preparavano l’organismo all’ambiente che avrebbe incontrato nel corso della giornata. Alcune specie hanno invece perso il ritmo circadiano, come per esempio un pesciolino cieco che vive nelle caverne e quindi può farne a meno. Anche qui, è l’evoluzione al lavoro, eliminando processi costosi dal punto di vista chimico ed energetico, quando non servono.

La cronobiologia studia anche altri ritmi oltre a quello circadiano. Come quello circannuale, che regola la migrazione di molti animali, o il ritmo circalunare, presente in molte creature marine. C’è ancora molto da scoprire su questi orologi e sul loro ruolo nella storia della vita. E la disciplina non è solo fonte di nuove conoscenze biologiche: ha infatti anche applicazioni mediche. Per esempio, alcuni disturbi del sonno dipendono dall’alterazione dei ritmi circadiani e una causa frequente è l’illuminazione artificiale proveniente dagli schermi. Ritmi circadiani alterati per esempio da frequenti turni di lavoro notturni possono causare diverse malattie tra cui alcune forme di cancro.

Numerosi cronobiologi pensano poi che gli orari scolastici convenzionali possano danneggiare la salute di molti adolescenti. I risultati di alcune ricerche hanno infatti mostrato che il ritmo circadiano nella pubertà cambia: i teenager vanno a letto più tardi e hanno bisogno di dormire di più. Se le lezioni cominciano troppo presto, ne risente prima di tutto il benessere degli studenti e, secondo alcune indagini, questo incide anche sul rendimento scolastico. Questi sono solo alcuni esempi di come la cronobiologia possa fornire preziose indicazioni per migliorare la salute, a cominciare dal mandare in soffitta l’anacronistica e irrazionale ora legale.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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