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Il gemello (quasi) invisibile

A volte senza saperlo, alcune persone hanno condiviso l’utero con un feto gemello, per un certo periodo nel grembo materno. Una specifica “firma” nel DNA, scoperta di recente, potrebbe permettere di identificare chi ha iniziato la propria esistenza “in coppia”.

Le persone che hanno iniziato la propria esistenza con un gemello monozigote – cioè a partire da una singola cellula uovo che si è separata in due poco dopo il concepimento – sono molte di più rispetto a quanto si potrebbe immaginare dal numero di parti gemellari omozigoti che giungono a termine.

A oggi non si sa ancora perché alcune cellule uovo fecondate si duplichino per poi separarsi. Tuttavia si è da poco scoperto che tracce del gemellaggio monozigote restano in alcune caratteristiche del DNA. Si tratta di tracce che rimangono stabili durante tutta la vita della persona. Grazie a questa “firma” apparentemente indelebile nel patrimonio genetico sarà possibile stabilire, anche a ritroso, chi per qualche tempo ha condiviso l’utero con un feto gemello, spesso all’insaputa della mamma e dei medici. Tali informazioni potrebbero essere soprattutto utili per spiegare le cause di alcune patologie frequenti nei gemelli monozigoti e di alcuni disturbi congeniti che li caratterizzano, aprendo alla possibilità anche di prevenzione di queste malattie.

Le gravidanze multiple che passano inosservate

Facciamo un piccolo passo indietro. Con il termine gravidanza multipla si intende la presenza di più di un feto nell’utero materno, una condizione dovuta solitamente alla fertilizzazione di più di un ovocita. Negli ultimi vent’anni la percentuale di gravidanze multiple è in generale in aumento, soprattutto a causa dell’innalzamento dell’età media materna e delle pratiche di stimolazione degli ovociti usate comunemente nella fecondazione assistita. Pratiche che possono dare luogo alla fecondazione di più di una cellula uovo da parte degli spermatozoi, con la conseguente gestazione di più di un feto e la nascita di gemelli eterozigoti o non identici.

In alcuni casi più rari, invece, un solo ovulo fecondato da un singolo spermatozoo si divide, dando luogo a due feti geneticamente identici. I gemelli nati da due feti di questo tipo sono detti monozigoti (o anche monovulari o identici, dato che i nascituri si somiglieranno molto tra loro), e hanno in buona sostanza lo stesso patrimonio genetico.

Talvolta i due gemelli monozigoti condividono la stessa placenta, oppure se ne possono sviluppare due distinte, ma in ogni caso lo zigote si divide durante le fasi di sviluppo pre-impianto. A oggi i meccanismi che regolano questo evento e i fattori che lo causano non sono compresi. È possibile che si tratti di un processo del tutto casuale, per quanto la componente ereditaria pare avere un ruolo più o meno importante in base alle caratteristiche gemellari.

I casi di gemellaggio monovulare sono studiati molto attentamente perché presentano un aumentato rischio di malattie ostetriche, perinatali, neonatali e altre complicanze di vario genere. In termini di frequenza, sono più o meno uniformi in tutto il mondo, con tre o quattro casi ogni mille nascite (ossia tra lo 0,3 per cento e lo 0,4 per cento). Un dato che può sorprendere è che circa il 12 per cento delle gravidanze umane è inizialmente multipla, ma soltanto un’esigua percentuale di queste, pari più o meno al 2 per cento, viene portata a termine con successo, mentre nel restante 98 per cento si verifica la perdita di uno dei due gemelli durante la gestazione. Una parte consistente di persone nate da parto singolo ha quindi condiviso l’utero per un periodo più o meno breve con un gemello, alla totale insaputa della madre. Finora gli strumenti a disposizione per indagare questo fenomeno sono stati insufficienti.

Una firma sul DNA ci racconta la nostra vita nell’utero

Uno studio molto recente, i cui risultati sono stati pubblicati su Nature Communications il 28 settembre scorso, sembra aprire uno spiraglio nell’analisi delle gravidanze multiple “fantasma”. Da questa analisi, in particolare, è emerso che esiste una specifica correlazione tra il gemellaggio monozigote e una forma di modifica epigenetica del DNA (in termine tecnico, una metilazione) che permane nei tessuti somatici adulti.

I dati mostrano anche che i gemelli identici mantengono questa firma inalterata per tutta la vita. Quindi, in linea di principio, è possibile scoprire a posteriori se una persona sia stata, almeno inizialmente dopo il concepimento, un gemello monozigote oppure no.

La chiave è una traccia indelebile nel DNA

Lo studio è stato condotto da un gruppo internazionale distribuito su tre continenti, coinvolgendo 1.957 persone, di cui 924 gemelli monozigoti singoli certi (uno solo per coppia di gemelli) e 1.033 gemelli dizigoti (sempre solo uno per coppia). La scelta di questa seconda categoria non è stata casuale, ma ha costituito il gruppo di controllo ideale, dato che entrambe le popolazioni hanno condiviso l’utero con un altro embrione. In questo modo sono stati esclusi i possibili effetti della semplice condivisione dell’utero prenatale. Dalle evidenze, ottenute attraverso un’analisi epigenetica, è emerso come effettivamente tra i due gruppi vi sia una sostanziale differenza nella metilazione del DNA, persistente anche nei tessuti degli adulti. Questi segni distintivi dei gemelli monozigoti non sono presenti in maniera casuale su tutto il patrimonio genetico, bensì si manifestano in corrispondenza di regioni specifiche dei telomeri e dei centromeri, in particolare dove una citosina si trova vicino a una guanina nella sequenza lineare di basi azotate del DNA, ossia nei cosiddetti siti CpG.

I risultati dello studio costituiscono il punto di partenza per ulteriori ricerche nel campo dell’epigenetica, in particolare per quanto riguarda il processo molecolare che determina la divisione dello zigote. I ricercatori confidano che la conoscenza di queste dinamiche possa permettere di spiegare le cause di alcune patologie frequenti nei gemelli monozigoti e di alcuni disturbi congeniti che li caratterizzano, aprendo alla possibilità di prevenire queste malattie o di poterle curare meglio con diagnosi precoci.

Gianluca Dotti
Giornalista scientifico freelance e divulgatore, si occupa di ricerca, salute e tecnologia. Classe 1988, dopo la laurea magistrale in Fisica della materia all’università di Modena e Reggio Emilia ottiene due master in comunicazione della scienza, alla Sissa di Trieste e a Ferrara. Libero professionista dal 2014 e giornalista pubblicista dal 2015, ha tra le collaborazioni Wired Italia, Radio24, StartupItalia, Festival della Comunicazione, Business Insider Italia, Forbes Italia, OggiScienza e Youris. Su Twitter è @undotti, su Instagram @dotti.it.
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