TORNA ALLE NEWS

La chirurgia plastica è figlia dei campi di battaglia

Questa è la storia di Harold Gillies, uno dei padri della moderna chirurgia plastica. Tra i molti effetti devastanti della Prima guerra mondiale, vi fu anche un numero impressionante di persone sfigurate. Il dottor Gillies si imbarcò nella difficile impresa di fare il possibile per migliorare il loro aspetto e recuperare al contempo le eventuali funzioni compromesse. Nonostante i pochi mezzi a disposizione, sperimentò tecniche che poi diventarono routine, non solo per i reduci.

Sentendo parlare di chirurgia plastica, a molti verranno in mente gli interventi a cui diverse persone più o meno famose si sottopongono per provare a sembrare più giovani e belle. In realtà la chirurgia puramente estetica, o cosmetica, cioè quella che ha l’obiettivo di migliorare esclusivamente l’aspetto, è solo una branca della chirurgia plastica. La disciplina infatti prevede operazioni di tipo per lo più ricostruttivo, volte cioè a ripristinare le funzioni e l’aspetto del corpo colpito da malattie, traumi, ustioni, difetti congeniti, sempre tenendo conto anche dell’estetica.

Fatta questa distinzione, è più semplice comprendere come la moderna chirurgia plastica sia nata dai campi di battaglia, soprattutto quelli della Grande guerra. Gli armamenti impiegati in quel conflitto erano senza precedenti, sia per potenza distruttiva che per scala. Eppure, durante le fasi iniziali i soldati in trincea non avevano nemmeno un elmetto di metallo per proteggersi.

La medicina era in un certo senso rimasta indietro rispetto alla tecnologia bellica, basti pensare che al tempo non esistevano ancora gli antibiotici per curare le infezioni che seguivano quasi sempre alle ferite. Le necessità mediche nate dalla guerra fecero compiere passi da gigante in molti settori, tra cui la chirurgia plastica, una disciplina che all’epoca non era ancora riconosciuta. Molto del merito per i progressi in questo ambito va riconosciuto a una persona in particolare: Sir Harold Gillies.

Dall’Opera alla Croce rossa

Gillies era nato nel 1882 in Nuova Zelanda, ma a 18 anni si spostò in Inghilterra per diventare medico. Eccelleva negli studi, nel golf e in generale in qualunque cosa cui si dedicasse. Nel 1911 sposò Kathleen Margaret Jackson, infermiera al St Bartholomew’s Hospital, dove Gillies aveva studiato otorinolaringoiatria. Trovò presto un impiego in uno studio privato, dove faceva da consulente ai cantanti della Royal Opera House di Londra, i quali avevano bisogno di avere la gola in condizioni eccellenti per le loro performance.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale si offrì come medico volontario nella Croce Rossa, e nel 1915 fu inviato in un ospedale militare a Boulogne-sur-Mer, in Francia. Qui ebbe la fortuna di lavorare con Auguste Charles Valadier, un dentista che sperimentava tecniche avanzate di ricostruzione facciale a partire dalle ossa della mandibola e della mascella. Essendo dentista, Valadier non era autorizzato a operare senza che fosse presente anche un chirurgo (in questo caso Gillies). L’incontro spinse il medico sulla strada della chirurgia plastica, che approfondì nel corso dello stesso anno in seguito alla conoscenza di un altro luminare, Hippolyte Morestin, e del chirurgo orale Varaztad Kazanjian, americano di origine armena, che lavorava a Camiers.

Pur nell’orrore della guerra, questi contatti galvanizzarono Gillies, che sentiva di aver trovato la propria strada. Nel frattempo era entrato nei Royal Army Medical Corps, e cominciò a fare pressioni sui suoi superiori per dotare l’esercito britannico di un’unità avanzata di chirurgia plastica. A gennaio del 1916 il Ministero della guerra gli affidò la gestione di un reparto al Cambridge Military Hospital ad Aldershot, Inghilterra.

Il reparto senza specchi

Anche se era stato accontentato, Gillies non ricevette subito un sostegno incondizionato. Dopotutto, solo chi era stato al fronte e aveva visto di persona i feriti si rendeva conto della necessità di intervenire, per restituire funzioni e dignità ai soldati sfigurati. In principio Gillies dovette addirittura pagare di tasca propria delle targhette, da inviare sui campi di battaglia, che consentissero di distinguere i feriti con traumi al volto, in modo che fossero inviati alla sua attenzione. Si trattava di ferite così spaventose che Gillies fece togliere gli specchi dal reparto.

Gillies coordinava un’équipe multidisciplinare, composta da chirurghi, dentisti, anestesisti, ma anche artisti e scultori e inoltre si teneva in contatto con i suoi mentori. Trapianti di osso, cartilagine e pelle erano all’ordine del giorno, anche se ogni caso faceva storia a sé e non c’erano manuali da consultare. I medici stessi erano allo stesso tempo terapeuti, sperimentatori e artisti. Non esistevano ancora gli antibiotici, ma perlomeno erano già disponibili gli antisettici e l’anestesia. Così, intervento dopo intervento, Gillies e la sua équipe fece compiere un balzo in avanti alle tecniche di chirurgia plastica.

La fama di Gillies crebbe, insieme al numero di pazienti sottoposti alle sue cure. Dopo la sanguinosa battaglia della Somme, il chirurgo riuscì a ottenere la costruzione di una sede più grande e attrezzata: il Queen’s Hospital di Sidcup, nel Kent, aprì nel 1917. Qui fu messa in pratica un’innovazione particolarmente rivoluzionaria, il cosiddetto lembo tubolare (in inglese: tube pedicle flap). Di cosa si trattava? Prima di questa operazione, per ricostruire il volto spesso si utilizzava un lembo di pelle sano che veniva trasportato sulla ferita, lasciando attivo un collegamento con il sito di partenza in modo da preservare il flusso sanguigno. Ricorrendo al metodo del lembo tubolare, il collegamento veniva invece ricucito su sé stesso e sagomato nella forma di un tubo chiuso. In questo modo non rimanevano ferite aperte per il tempo necessario a far attecchire il lembo nella nuova sede e il rischio di infezioni si riduceva.

Nel 1920 Gillies pubblicò il manuale dal titolo Plastic Surgery of the Face, dedicato alla chirurgia plastica del volto. Il testo era interamente basato sui suoi casi (all’epoca erano già più di 5.000), inclusi quelli che non erano andati come previsto. Non andavano infatti dimenticati i soldati per i quali non era stato possibile ottenere un risultato soddisfacente dal punto di vista estetico o funzionale. Quello di Gillies non era il primo libro sulla chirurgia plastica, ma all’epoca non esisteva nessun’altra opera paragonabile per numero e varietà di casi, e il suo testo divenne quindi un riferimento.

Perché Gillies è uno dei padri della moderna chirurgia plastica

La chirurgia plastica non era un concetto nuovo neppure ai tempi di Gillies, all’inizio del Novecento. La storia della medicina è punteggiata di resoconti di interventi incredibili. In Italia, per esempio, ricordiamo nel Rinascimento Gaspare Tagliacozzi, un professore di anatomia famoso anche per i suoi interventi ricostruttivi. E ci sono testimonianze ancora più antiche, come quelle raccontate nel papiro di Ebers o nel Sushruta Samhita, due documenti in cui si menzionano addirittura trapianti di pelle. Ma gli sforzi dei pionieri, per quanto diffusi nel mondo, non avevano portato a istituire una vera e propria disciplina, per ragioni sia tecniche (gli interventi erano molto rischiosi), sia sociali. Per esempio, Tagliacozzi era in grado di ricostruire anche nasi danneggiati dalla sifilide, una malattia a trasmissione sessuale, ma alcuni pensavano che sarebbe stato meglio non intervenire, perché la deformità del naso indicava alle altre persone la “decadenza morale” del proprietario, e il rischio di infezione per gli altri.

Tutto cambiò durante la Prima guerra mondiale, quando i feriti cominciarono a inondare gli ospedali. Salvare le loro vite non era sufficiente: molti avevano il volto orribilmente sfigurato, alcuni al punto di aver perso la capacità di parlare e alimentarsi autonomamente. Inoltre quelle ferite terribili strappavano ai soldati la loro identità. Sopravvivere in quelle condizioni, riconoscendo l’orrore che generava negli sguardi altrui, poteva essere un destino quasi peggiore della morte.

Harold Gillies non era l’unico chirurgo ardito e innovatore nell’Europa di quel periodo. Altri Paesi hanno avuto i propri pionieri nel campo e alcuni influenzarono il suo lavoro. Tuttavia il duraturo contributo di Gillies si può probabilmente spiegare anche con il suo temperamento: il chirurgo neozelandese era riuscito a convincere i suoi superiori che serviva un reparto specializzato, dedicato a quel tipo di ferite, che impiegasse diversi professionisti con diverse competenze; un reparto che avrebbe dovuto documentare ogni cosa e formare nuovo personale. Era un leader naturale, che riconosceva l’importanza del lavoro di squadra e della diffusione delle conoscenze. La persona giusta al momento giusto.

Gillies continuò a lavorare come chirurgo plastico per tutta la vita, in guerra e in pace, e non smise mai di innovare. Avendo imparato nel corso della Seconda guerra mondiale a ricostruire anche i genitali dei soldati, tra il 1946 e il 1949 realizzò il primo intervento di riassegnazione del sesso su un uomo trans, il medico Michael Dillon, che era nato come Laura. Per procedere dovette inventarsi una falsa diagnosi che giustificasse l’intervento.

Il 3 agosto 1960 Gillies fu colpito da un ictus mentre stava operando e morì il 10 settembre, a 78 anni. La sua interessante biografia è stata raccontata dalla storica Lindsey Fitzharris nel libro dal titolo The Facemaker (Macmillan, 2022).

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
share