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La storia della Lis, la lingua dei segni italiana

Quali sono le caratteristiche di questo linguaggio e come si è sviluppato? Ripercorriamone insieme la storia in occasione della Giornata internazionale delle lingue dei segni.

La lingua italiana dei segni (LIS) è un linguaggio naturale usato da una parte delle persone sorde nel territorio italiano, in cui ogni genere di concetto è veicolato dai canali visivo-gestuali, ossia dalle mani e dal corpo in generale tramite gli occhi. Non si tratta di un insieme di gesti, bensì di una vera e propria lingua basata su regole precise, al pari di tutte le altre lingue parlate o segnate. Una variante della LIS è la lingua dei segni italiana tattile, utilizzata da persone sorde che già si esprimevano con la LIS, ma che poi hanno perso anche la vista diventando sordocieche.

Sebbene solo dal 2021 la LIS sia riconosciuta ufficialmente come lingua, la sua storia comincia molto tempo fa e si intreccia con quella delle persone sorde.

I padri della LIS

Le lingue possono essere distinte in naturali e non naturali. Un esempio di lingua non naturale è l’esperanto, inventato nel 1887 dall’oftalmologo L. L. Zamenhof allo scopo di facilitare la comunicazione internazionale attraverso una lingua universale con regole semplificate rispetto a quelle in uso nelle singole nazioni. Anche se l’esperanto si può imparare da bambini e in parte si evolve (senza, però, dare origine a dialetti), la grande maggioranza di chi lo parla non è nativa e ha cioè appreso questa lingua in un secondo momento dopo la nascita. La LIS è invece per i linguisti una lingua naturale al pari delle altre lingue dei segni, tra cui anche l’American sign language. Semplificando molto, significa che non è stata inventata: i segnanti la apprendono prevalentemente da bambini, proprio come avviene per i linguaggi basati sulla parola e la lingua si è evoluta nel tempo. A differenza, quindi, dell’esperanto, non è possibile parlare di un vero e proprio “inventore della LIS”, anche se ci sono state alcune figure chiave che hanno contribuito alla sua affermazione.

Sappiamo che, sin dall’antichità, le persone sorde hanno sempre trovato sistemi per comunicare, e che le lingue dei segni sono emerse ed emergono spontaneamente in diverse comunità. Se ne accorse nel Settecento l’abate Charles-Michel de l’Épée, che imparò la lingua dei segni usata in Francia a quel tempo e decise di impiegarla per l’istruzione delle persone sorde. Anche se provò a migliorare il linguaggio originario con segni ausiliari di sua invenzione per spiegare la grammatica francese, l’educatore accettava che la comunicazione visiva fosse un canale naturale di espressione delle persone sorde, e questo atteggiamento avanzato era, per il tempo, inconsueto se non addirittura rivoluzionario.

La scuola per sordi di Épée, la prima pubblica in tutto il mondo, ebbe un immenso successo sia nazionale che internazionale. Grazia alla sua attività di formazione, la lingua che in questa scuola veniva insegnata cominciò da una parte a standardizzarsi e dall’altra cominciò a diffondersi e a diversificarsi nelle diverse località. Molte lingue dei segni usate oggi, tra cui quella francese e quella americana, che è anche la più diffusa, si sono evolute proprio a partire dalla vecchia lingua dei segni francese dei tempi di Épée. Questo è vero anche per la LIS, dato che uno dei discepoli dell’abate, il sacerdote Tommaso Silvestri, introdusse in Italia il metodo d’istruzione per i sordi messo a punto dal suo maestro. Gli studiosi ritengono che quella che oggi è la LIS abbia cominciato a svilupparsi in queste scuole, dove per la prima volta le lingue segnate dei sordi venivano considerate alla pari delle lingue parlate.

Il congresso di Milano del 1880

L’istruzione dei sordi tramite le lingue dei segni non era però condivisa da tutti gli educatori. Nell’Ottocento cominciò a riaffermarsi il cosiddetto oralismo, un metodo con cui si insegnava ai sordi a usare le parole della lingua utilizzate dagli udenti e a “sentirle” attraverso la lettura delle labbra. Per contro, la comunicazione visiva tramite la lingua dei segni non era incoraggiata, anzi, veniva persino proibita, poiché ritenuta non adeguata all’istruzione. L’esclusione era a senso unico, poiché gli educatori che usavano le lingue dei segni o gli alfabeti segnati (una lettera = un segno) non trascuravano l’insegnamento della lingua parlata naturalmente da chi sordo non era. A differenza però degli oralisti, essi non consideravano la parola come l’unico linguaggio accettabile per lo sviluppo umano. L’oralismo era quindi messo in diretta opposizione con il cosiddetto manualismo di cui Épée era stato pioniere. A un certo punto i nodi vennero al pettine.

Nel 1880 si tenne a Milano il cosiddetto Congresso internazionale per il miglioramento della sorte dei sordomuti. Qui i delegati convenuti decisero a larga maggioranza che la parola era senza dubbio superiore ai gesti. Pertanto i metodi degli oralisti divennero quelli raccomandati per l’istruzione delle persone sorde e nel nostro Paese la lingua dei segni scomparve dalle scuole dedicate, anche se la comunità sorda continuò a usarla.

La LIS e il dibattito sul suo riconoscimento

Dagli anni Sessanta in poi il mondo accademico cominciò a interessarsi alle lingue dei segni e a chi le utilizzava. Alla fine degli anni Settanta iniziò a occuparsene, fra gli altri, l’Istituto di psicologia del CNR, oggi Istituto di scienze e tecnologie della cognizione (ISTC). Gli studiosi convennero che la LIS era a tutti gli effetti una vera lingua e per la prima volta si diffuse anche un nome per indicarla: lingua italiana dei segni (anche se oggi è più corretto chiamarla lingua dei segni italiana). All’interesse scientifico si accompagnò anche un cambiamento sostanziale nella società: nel tempo i segnanti cominciarono a uscire dall’invisibilità, a chiedere pari diritti rispetto alla propria lingua e a esigere la presenza di interpreti nelle occasioni pubbliche. Perché tutto ciò avvenisse era però necessario che la loro lingua fosse ufficialmente riconosciuta dallo Stato, al pari di altre lingue parlate da minoranze. Il riconoscimento è infine arrivato nel 2021, dopo un lungo processo culturale, sociale e politico.

Non tutte le persone sorde e le associazioni da cui sono rappresentate sono d’accordo con questa decisione. La LIS, infatti, non è la lingua di tutte le persone con disabilità uditive sul territorio italiano, per la maggior parte sordi non segnanti. Con l’aiuto di diagnosi precoci, protesi, impianti cocleari, logopedisti e insegnanti di sostegno, molte di queste persone hanno frequentato o frequentano le stesse scuole degli udenti e si esprimono a voce in italiano. Secondo questa visione, quindi, il progresso medico e tecnologico oggi permette alla grande maggioranza dei disabili uditivi di comprendere quanto si dice e di essere capiti in ogni ambiente, ed è su questo aspetto che, per molti, sarebbe bene concentrarsi. In altre parole, i critici temono che il riconoscimento della LIS, e le risorse a esso dedicate, possano entrare in competizione con le altre risorse che lo Stato deve mettere a disposizione per il superamento della disabilità uditiva. D’altro canto, per la comunità dei sordi segnanti la LIS è davvero fondamentale. Si tratta anche di una questione di identità culturale e, al pari di quanto è accaduto nei principali Paesi del mondo, il suo riconoscimento non danneggia chi non appartiene alla comunità, sordo o meno.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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