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Robot subacquei sulle tracce del DNA ambientale

Una flotta di robot subacquei potrebbe aiutarci a costruire un “registro” delle creature che popolano gli oceani… un sorso di acqua di mare alla volta. Già: seguendo la scia degli animali, o meglio, raccogliendo e analizzando il DNA rilasciato dalle diverse specie nell’ambiente, potremmo accumulare informazioni sulla biodiversità acquatica e colmare la carenza di dati relativa ad alcune zone degli oceani.

Sarà capitato a quasi tutti di scorgere lungo un sentiero di campagna le orme di qualche animale selvatico, come quelle di una volpe, di un cinghiale o di qualche pennuto sulla sabbia di una spiaggia. Le impronte lasciate sul terreno da animali di diverse specie sono da tempo uno strumento importante per i naturalisti, che in questo modo ne possono ricostruire i comportamenti e individuare le tane. La strategia è però, ovviamente, inapplicabile alla maggior parte degli animali acquatici. Soprattutto nel caso di creature molto sfuggenti e di quelle che abitano ambienti particolarmente remoti, in assenza di altri tipi di segnali, gli scienziati hanno dovuto escogitare altre modalità di monitoraggio. Una di queste sono le tracce di DNA che restano nell’ambiente acquatico lungo la scia degli animali. In gergo si parla di DNA ambientale (“Environmental DNA”, in sigla eDNA).

I campioni biologici devono essere innanzitutto raccolti e quindi analizzati. Un gruppo di ricercatori del Monterey Bay Aquarium Research Institute (MBARI) in California, e della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), in Florida, ha affidato questo compito a veicoli autonomi capaci di muoversi in profondità. Questi robot “assaggiano” l’acqua marina, intrappolano il materiale in sospensione e restituiscono dati sulle bestiole che abitano o attraversano lo specifico “pezzetto” di mare o di oceano in cui le macchine sono immerse. Ma facciamo un passo indietro.

Che cos’è l’eDNA?

Tutti gli organismi disperdono DNA nell’ambiente, rilasciando muco, peli, residui di pelle e altre cellule morte. Nel caso degli organismi marini, il DNA ambientale si trova nelle squame e in altri resti biologici che entrano nelle colonne d’acqua in cui si trovano i robot da cui possono essere rilevati attraverso il prelievo di campioni. Poiché ogni specie è individuata da una specifica sequenza genetica, leggendo il DNA di campioni di questo tipo si può stabilire quali animali vivono o passano attraverso una determinata zona. La possibilità vale, naturalmente, per le specie di cui si è già studiato il genoma.

Uno dei metodi utilizzati per risalire dall’eDNA alla specie di appartenenza è il cosiddetto metabarcoding, che permette di individuare contemporaneamente all’interno di un campione di acqua le tracce di più specie. Il principio di base è che più gli organismi sono strettamente imparentati e maggiori sono le parti comuni di DNA che possono fungere da marcatori nell’analisi. Viceversa, minori sono le parentele e maggiori le divergenze. Con il metabarcoding, si procede a estrarre piccole parti di DNA presenti nel campione da usare come una sorta di “codici a barre” da “scansionare” e confrontare con le librerie di sequenze di DNA già note, per scovare i gruppi di animali rappresentati.

Per l’ecologia e lo studio della biodiversità il potenziale di questo approccio è notevole. Ottenere informazioni su molti gruppi o famiglie di animali contemporaneamente anziché aspettare di poter osservare un individuo per volta può fornire un quadro più completo delle popolazioni di un ecosistema. Inoltre permette di ottenere informazioni aggiornate su alcune specie a rischio, contribuendo al lavoro di chi si occupa di conservazione.

A partire dal 2020, nel corso della pandemia di Covid-19, estrazioni e analisi di materiale genetico disperso nell’ambiente sono state utilizzate anche per tracciare la presenza del virus Sars-CoV-2 soprattutto nelle acque reflue, al fine di cogliere segnali precoci di possibili nuove ondate epidemiche. Tra le tracce di varianti così intercettate, alcune non erano tipiche della specie umana: un segnale del fatto che SARS-CoV-2 si è diffuso anche in altri animali, per esempio nei topi, le cui feci e urine si trovano nelle acque reflue.

Come raccogliere questa miniera di informazioni?

Come gli scienziati di MBARI e NOAA hanno spiegato in un articolo pubblicato a maggio 2022 sulla rivista Environmental DNA, per rifornirsi di eDNA in mare è possibile dispiegare una flotta di robot progettati per muoversi in maniera autonoma in ambiente sottomarino e “sorseggiare” l’acqua, trattenendo ed esaminando le componenti rilevanti dal punto di vista genetico.

I robot utilizzati per gli esperimenti con l’eDNA sono veicoli subacquei autonomi a lungo raggio, i cosiddetti “Long-range autonomous underwater vehicle (Lrauv): macchine veloci e agili nei cambiamenti di rotta, che possono spingersi in aree remote degli oceani coprendo anche lunghe distanze, a centinaia di chilometri di raggio. I robot sono equipaggiati con un sofisticato sistema di analisi dei campioni, detto “Environmental Sample Processor”, che i ricercatori hanno scherzosamente definito un “laboratorio in lattina”. A mano a mano che il robot viaggia e ingerisce piccole quantità di acqua marina, questa viene convogliata e filtrata attraverso un dispositivo simile a un set di cartucce grazie al quale è possibile bloccare e conservare l’eDNA per le analisi successive (più o meno una sessantina).

Una volta accumulati i campioni necessari, lo studio dell’eDNA avviene in laboratorio, ma gli scienziati stanno lavorando per rendere ciascun veicolo autonomo anche da questo punto di vista, cioè per miniaturizzare e automatizzare l’intero processo.

Robot in azione

Ci sono voluti più o meno due anni per mettere a punto il sistema e sperimentare sul campo i robot dotati dell’apparato di analisi. Nel corso di tre spedizioni, i ricercatori hanno effettuato una serie di test al largo della costa della baia di Monterey, nel Nord della California, eseguendo campionamenti sia con il metodo tradizionale, cioè calando direttamente dalle navi la strumentazione “classica” (delle simil-bottiglie), sia attraverso i robot “assaggiatori”.

Il confronto tra le due modalità operative ha chiarito che con i veicoli autonomi è possibile raccogliere campioni anche in siti difficilmente raggiungibili dalle imbarcazioni ed effettuare prelievi più frequenti e in maniera più economica (risparmiando, per esempio, sui costi del personale di bordo). Inoltre robot di questo tipo consentono agli scienziati di mantenere una presenza continuativa in fondo al mare: un fattore non da poco se uno degli obiettivi a lungo termine è completare il registro di tutti i “residenti” dei mari e degli oceani, comprendere come stiano cambiando i loro habitat e prevenirne un ulteriore impoverimento.

Alice Pace
Giornalista scientifica freelance specializzata in salute e tecnologia, anche grazie a una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche e un dottorato in nanotecnologie applicate alla medicina. Si è formata grazie a un master in giornalismo scientifico presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste e una borsa di studio presso la Harvard Medical School di Boston. Su Instagram e su Twitter è @helixpis.
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