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Da dove nascono le parole della salute?

Perché si usa un derivato della parola “granchio” per indicare un tumore? Cosa significavano in origine termini come “malattia” e “farmaco”? Non sono mere questioni stilistiche. Le etimologie e le evoluzioni nell’uso della lingua  possono dire molto su come nei millenni sia cambiato il nostro rapporto con la salute.

Che cosa sia un aneurisma, e quale sia la sua manifestazione, è un fatto noto almeno agli addetti ai lavori dai tempi della Grecia antica, come dimostra l’esistenza fin da allora della parola aneurysma, che letteralmente sta per dilatazione, riferita ai vasi sanguigni. Si è perso invece nel tempo il sostantivo maschile essutorio (di cui resta traccia quasi solo nei testi dell’Accademia della Crusca), derivato dal latino exuere, togliere via, estrarre, e che era usato, per esempio, in odontoiatria. Con lo stesso suffisso e la stessa costruzione è ancora di uso comune invece collutorio, che deriva dal latino colluere (lavare via) e non a caso è riferito alla stessa disciplina medica.

Che molti dei termini utilizzati oggi in ambito sanitario siano di derivazione greca o latina è cosa nota, ma il modo in cui i significati delle parole si sono evoluti, a volte anche cambiando del tutto, non è solo curioso ma anche utile a capire il presente.

Sconfiggere il granchio

È singolare che una delle parole più usate nel lessico comune quando si tratta di oncologia – ossia il termine cancro, che deriva dalla parola granchio – sia anche tra le più citate in astrologia, dato che indica la costellazione meno appariscente tra quelle associate ai segni zodiacali. Il motivo per cui quest’ultima si chiama così – e per cui la sua stella più luminosa, Acubens, in arabo significa chela – è legato a un mito greco secondo cui un crostaceo decapode tentò di sconfiggere Ercole, venendo malamente sconfitto ma ricevendo dalla dea Era un posto tra le stelle come riconoscimento per il proprio sacrificio.

In medicina, invece, il motivo per cui un tumore (parola che in latino significa gonfiore) sia stato accostato alla figura del granchio è molto meno chiaro. Pare sia stato Ippocrate, intorno al 400 avanti Cristo, ad associare per primo questa malattia alla figura di Carcino, il personaggio mitologico descritto come un enorme granchio. L’enciclopedista e medico romano Celso, quasi quattro secoli più tardi, rese più formale l’equivalenza tra carcino (da cui deriva l’odierno termine carcinoma) e cancro.

Le ipotesi sul motivo di questa scelta linguistica sono diverse, e quelle su cui c’è maggiore consenso sono tre. La prima attribuisce l’accostamento linguistico alla (vaga, a dire il vero) somiglianza tra le zampe del granchio e l’aspetto delle vene più visibili nei pazienti affetti da alcuni tumori, che appaiono allargate e deformate. Più ragionevole sembra invece l’interpretazione per cui il granchio sarebbe una metafora della malattia, capace di afferrare e stritolare i pazienti proprio come fa l’animale con le sue prede. Infine, prendendo in considerazione il modo in cui la malattia progredisce, la figura del granchio potrebbe essere associata al meccanismo di sviluppo neoplastico, con il corpo dell’animale a rappresentare la massa tumorale e le zampe quali metastasi che raggiungono le altre parti dell’organismo.

Ma quale di queste ipotesi meglio si adatta a quanto oggi sappiamo sul cancro? Se la prima pare essere piuttosto superata, anzitutto perché non certo rappresentativa di tutte le forme in cui i tumori possono presentarsi e svilupparsi, la seconda è quella che sembra trovare maggior riscontro negli usi anche inappropriati della parola nel gergo comune e nei dialetti. Curioso poi, e sostanzialmente confermato dal punto di vista storico, che due millenni e mezzo fa già si conoscesse il processo di metastatizzazione, anche se  non si avesse idea di cosa lo provocasse (se ne dava un’interpretazione secondo la cosiddetta teoria umorale).

Dalla malattia ai farmaci

Il termine malattia è tra quelli con più sfumature di significato e di interpretazione diverse, e di cui quindi risulta più difficile individuare una derivazione univoca. Nella lingua inglese contemporanea, la parola italiana malattia può essere espressa in tre modi diversi – illness, disease e sickness – che indicano rispettivamente la dimensione soggettiva dell’esperienza del malato, il concetto di disturbo in ambito medico e il riconoscimento della condizione personale alterata in un contesto sociale, giuridico o comunque non medico.

La parola malattia potrebbe aver avuto origine dal greco malakia, che significa debolezza, mollezza e languore, – un concetto vicino a quello di illness – così come dal costrutto latino male aptus, ossia malconcio, malmesso. Invece, chi sostiene la tesi per cui il termine malattia derivi dalle parole latine male actio, cattiva azione, suggerisce che in passato l’essere malati fosse ritenuto imputabile a un’azione sbagliata da parte del paziente, spesso in senso psicologico-intellettivo – un’azione dettata quindi dall’ignoranza della mente – più che concreto.

Interpretazioni che fanno il paio con un altro termine da sempre contrapposto alla malattia, ossia salute. Derivante dal latino salus-utis, il termine indica integrità, incolumità, persino salvezza, alludendo a un benessere tanto fisico quanto psichico e morale.

Allo stesso modo, con medico, dal latino medicus o medeor, si intende colui che cura, che permette di passare dalla malattia alla salute, qualunque sia la prestazione necessaria a garantire questa transizione. E medicina, derivando dall’aggettivo latino medicinus, indica banalmente ciò che pertiene al medico, senza ulteriore valore di significato.

Sempre al concetto di cura, e in particolare alla parola egiziana mak, fanno probabilmente riferimento il greco pharmakon, il latino pharmacum e quindi l’italiano farmaco, con cui si intendono però solo sostanze concrete, organiche o inorganiche che siano, e non immateriali. Curioso, e molto attuale come concetto, è che sia in greco sia in latino la parola farmaco significasse rimedio – ossia cura, medicina, medicamento – ma allo stesso tempo anche veleno. Era infatti ben noto, nonostante il concetto sembri ancora sfuggire a qualcuno, che la sostanza in sé fosse importante quanto la dose in cui la si somministra nel procurare un effetto benefico. Una dose insufficiente non garantisce l’effetto sperato, mentre una dose eccessiva può essere nociva o addirittura letale. Solo il farmaco adeguato nella dose adeguata può guarire: un termine, quest’ultimo, che ha conservato il suo significato di difendere dal male fisico ma ha perso quelli tradizionali di salvare e di proteggere, che alludevano alla sfera spirituale.

Gianluca Dotti
Giornalista scientifico freelance e divulgatore, si occupa di ricerca, salute e tecnologia. Classe 1988, dopo la laurea magistrale in Fisica della materia all’università di Modena e Reggio Emilia ottiene due master in comunicazione della scienza, alla Sissa di Trieste e a Ferrara. Libero professionista dal 2014 e giornalista pubblicista dal 2015, ha tra le collaborazioni Wired Italia, Radio24, StartupItalia, Festival della Comunicazione, Business Insider Italia, Forbes Italia, OggiScienza e Youris. Su Twitter è @undotti, su Instagram @dotti.it.
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