Cosa sappiamo sulle differenze biologiche tra i sessi e sul perché esse debbano essere tenute in considerazione per la diagnosi, le terapie e la prevenzione.
Statisticamente le donne vivono più a lungo degli uomini, nonostante siano più inclini a soffrire di emicrania, spesso siano soccorse tardivamente in caso di attacco cardiaco e siano soggette più facilmente a reazioni avverse se assumono farmaci. Agli occhi degli scienziati è sempre più chiaro quanto il genere delle persone sia un fattore determinante delle condizioni di salute e che, per essere davvero democratica, la scienza medica non può più permettersi di ignorare questi fattori. Né sul fronte della cura, né per quanto riguarda la prevenzione e la diagnosi.
La cosiddetta medicina di genere riconosce che tra i generi non vi sono solo differenze legate all’apparato riproduttivo bensì anche specificità, per esempio, rispetto ai sintomi di una malattia e nella risposta ai farmaci, dovute a questioni anatomiche, ormonali, ma anche socio-culturali.
Con questo approccio, che ha iniziato a essere studiato e applicato solo a partire dagli anni Duemila, si punta a comprendere in che modo le patologie a carico di tutti gli organi e sistemi del corpo umano si presentino diversamente nelle persone a seconda del sesso. L’obiettivo è rispondere a domande come: esistono differenze nella composizione e nel funzionamento degli organi di una donna e di un uomo? La malattia che li colpisce avrà invece le stesse caratteristiche? Le cure che funzionano negli individui appartenenti a un genere saranno efficaci e sicure anche per quelle dell’altro genere? E per quali malattie possiamo pensare di rendere più efficace la prevenzione, grazie a una conoscenza migliorata delle prerogative di ciascuno?
Una scienza (molto, troppo) recente
La medicina di genere nasce concettualmente come conseguenza della cosiddetta questione femminile in ambito sanitario. In particolare quando, all’inizio degli anni Novanta, la cardiologa e allora direttrice dei National Institutes of Health (NIH) statunitensi, Bernardine Healy portò alla luce, dati alla mano, forti differenze nella gestione dell’infarto nei generi. In particolare, il numero delle diagnosi nelle donne era molto molto più basso rispetto a quello relativo agli uomini, e le terapie risultavano meno efficaci. Dobbiamo attendere il 2000 perché la medicina di genere diventi oggetto di studio dell’Organizzazione mondiale della sanità e il 2007 perché la stessa organizzazione inserisca come obiettivo da perseguire a livello internazionale la stesura di strategie che includano la variabile genere nella ricerca biomedica.
Fino a quel momento, i meccanismi fisiologici riguardanti il corpo della donna (a eccezione della ricerca sull’apparato riproduttivo e sul seno) costituivano solo raramente oggetto di studio della biologia e della medicina. Svantaggiate nell’inclusione in studi clinici dall’eventualità di gravidanze e dagli scompensi ormonali, le donne sono rimaste fino a poco più di vent’anni fa tagliate fuori dalle sperimentazioni farmacologiche e dai test tossicologici, molto sottorappresentate nei trials clinici e praticamente non considerate nelle questioni epidemiologiche. Una disparità che ha le sue radici già al bancone di laboratorio: tutta la ricerca con gli animali si era, infatti, basata sempre e solo sulle evidenze raccolte con individui di sesso maschile.
Qualcosa (per fortuna) è cambiato
La medicina di genere è una disciplina trasversale a tutti gli ambiti degli studi clinici ed è ancora molto giovane. Ciò nonostante, non sono poche le evidenze raccolte grazie al suo occhio inclusivo. Riguardo ai disturbi cardiaci che ne hanno sollecitato la nascita, per esempio, oggi sappiamo che il fatto che le donne abbiano un tasso di sopravvivenza più basso in caso di attacco di cuore è molto legato a una percezione distorta del rischio. Culturalmente l’infarto è sempre stato considerato una patologia molto “maschile”, e non di rado i segnali fisici di un infarto nella donna vengono scambiati con quelli di un attacco di panico. Ma non solo. La ricerca negli ultimi anni ha compreso che persino i sintomi di un infarto, o dell’angina, si presentano in modo diverso tra uomini e donne: spesso infatti le donne provano dolore alla cervicale e alla mandibola, mal di stomaco e nausea persistente, anziché il più conosciuto (e appunto comune nel genere maschile) senso di oppressione al centro del torace.
Al contrario, ci sono patologie che da sempre vengono considerate “prerogativa” femminile, con il rischio di generare una lacuna nella prevenzione nonché ritardi nella diagnosi e nel trattamento a svantaggio degli uomini. È il caso, per fare un esempio, dell’osteoporosi, una malattia che porta a fragilità ossea e che, pur colpendo più di frequente le donne, non lascia certo indisturbati gli uomini: si manifesta verso i cinquant’anni in un uomo su cinque, ma molto spesso non viene diagnosticata e di conseguenza la sua incidenza rimane sottostimata, determinando un aumento non indifferente nel rischio di fratture e disabilità.
Un altro esempio emblematico è quello del dolore. Le ricerche più recenti suggeriscono che le donne hanno una soglia del dolore più bassa, cioè sono più sensibili degli uomini, sono più soggette alla possibilità di incorrere nel dolore cronico, soffrono due volte più degli uomini di emicrania, e che su di loro queste condizioni dolorose hanno un impatto emotivo maggiore. Ciò nonostante gli operatori sanitari sono addirittura meno propensi a prescrivere e somministrare determinati analgesici alle donne rispetto che agli uomini.
L’elenco delle condizioni dove si sarebbe potuto (o si potrebbe) fare molto meglio”, nella sfida dell’equità tra uomo e donna in medicina, è davvero molto lunga, e include anche il cancro, le malattie autoimmuni, le patologie a carico del sistema nervoso, le malattie infettive. E sì, è fondamentale che l’approccio di genere sia applicato anche nello studio e nella ricerca di trattamenti per far fronte alla pandemia di Covid-19: gli scienziati ritengono che dati specifici per genere potranno infatti contribuire sia a fornire un quadro più chiaro rispetto ai fattori di rischio e alle dinamiche di trasmissione, sia a comprendere se e come i percorsi cellulari e molecolari associati al virus Sars-CoV-2 possano differenziarsi tra uomini e donne.