Lo Human Cell Atlas è un progetto internazionale che ha preso il via a Londra nel 2016 con un obiettivo chiaro: mappare tutte le cellule del nostro organismo. Ne abbiamo almeno 200 tipi diversi, per un totale stimato che può superare i 37 trilioni. Ecco perché è nata l’idea e che cosa abbiamo imparato finora.
Per molti decenni le cellule che compongono il nostro corpo sono state classificate e definite sulla base del loro aspetto esteriore, ovvero della loro forma visibile al microscopio, e che in modo più tecnico è chiamata anche morfologia. Grazie allo sviluppo di tecnologie più potenti, oggi è possibile studiare anche caratteristiche molecolari che permettono di distinguere una cellula dall’altra. Tali tecnologie, oltre a permettere diagnosi più precise , consentono anche di riprodurre sempre più in laboratorio organi e tessuti (mai sentito parlare degli organoidi?). Tra i numerosi scopi, comprendere meglio l’evoluzione di molte malattie, produrre formulazioni adatte alle terapie cellulari e molto altro.
A questi scopi è utile catalogare le cellule in modo più preciso di un tempo, tenendo conto delle proprietà a livello molecolare, tra cui i cosiddetti marcatori immunologici, ovvero le molecole esposte sulla superficie di una cellula e riconosciute da uno specifico anticorpo. Altre caratteristiche molecolari di una cellula sono quelle, genetiche, permesse dallo sviluppo delle tecniche di sequenziamento sia del DNA sia del RNA. Nell’insieme queste tecniche possono permettere una caratterizzazione addirittura individuale di ciascuna cellula e dei suoi cambiamenti nello spazio e nel tempo.
Genesi di un atlante
Grazie a queste tecnologie hanno cominciato ad accumularsi molti, moltissimi dati, e anche per questo la comunità scientifica ha deciso di fare le cose in grande. È molto recente, dell’ottobre del 2016, l’inizio di un mastodontico progetto internazionale di ricerca scientifica e catalogazione dei tipi cellulari, che è stato chiamato – senza troppa modestia – l’atlante delle cellule umane, o Human Cell Atlas (HCA) in inglese. Ufficialmente il via è stato dato a Londra, dove alla guida della prima fase operativa sono state designate la biologa computazionale Aviv Regev e la genetista cellulare Sarah Teichmann. Anche se l’oggetto della catalogazione è diverso, l’impostazione dell’iniziativa ricorda quella del Progetto genoma umano, che tra il 1990 e il 2003 ha sequenziato, una per una, tutte le basi azotate del DNA umano.
Per dare un’idea di quanto il progetto sia ambizioso bastano davvero poche informazioni. Anzitutto coinvolge scienziati esperti in molte delle più moderne discipline della biologia, come la genomica, la proteomica, la metabolomica e la trascrittomica. Necessita inoltre di un solido sistema di archiviazione, perché per ciascun tipo cellulare si vogliono raccogliere e poter confrontare tutti i dati provenienti dalle ricerche passate, aggiornandoli di volta in volta con le nuove pubblicazioni scientifiche. E si stima che, in tutto, le cellule da studiare e catalogare nell’atlante siano circa 37.ooo miliardi, ciascuna da associare a specifiche sequenze genetiche contenute nel nostro DNA.
Il progetto non impiega direttamente eserciti di scienziati, ma è piuttosto un consorzio a cui molte delle più prestigiose realtà della ricerca a livello mondiale si sono affiliate. A ottobre 2017 è stato pubblicato un lunghissimo documento con tutti i dettagli operativi e la lista delle numerosissime collaborazioni in corso fino a quel momento: già dopo pochi mesi, contribuivano all’atlante un totale di 38 progetti di ricerca internazionale. Mezzo anno più tardi, nell’aprile del 2018, il numero dei progetti era salito a 185, e in totale erano al lavoro sullo Human Cell Atlas circa 480 ricercatori.
Come è facile immaginare, tra le caratteristiche fondanti dell’atlante c’è il suo essere aperto e consultabile da chiunque, con una logica “open source”. Sempre ad aprile 2018 ha fatto la sua comparsa il primo grande database pubblico confluito nell’atlante, che includeva 530.000 diversi tipi di cellule del sistema immunitario, raccolte dal midollo osseo e dal cordone ombelicale. E nel 2019, presentato in un articolo pubblicato anche su Nature, è entrato a far parte dello Human Cell Atlas, tra gli altri, un set di dati corrispondente a 10.000 tipi di cellule del fegato, ritenuto particolarmente prezioso non tanto per la quantità di campioni analizzati quanto per il particolare organo cui appartengono.
A che punto siamo con lo Human Cell Atlas
La strada da percorrere è ancora molto lunga, ma ciò che importa davvero è che la cooperazione a livello globale sul progetto stia proseguendo senza intoppi, e che comincino pure ad arrivare i primi impatti tangibili e concreti del lavoro di ricerca.
Per esempio, proprio con l’avvento della pandemia di Covid-19, lo Human Cell Atlas si è rivelato utile, grazie alle informazioni già raccolte sulle cellule del naso e più in generale delle vie aeree. È stata studiata, in particolare, l’interazione tra il virus Sars-CoV-2 e le cellule delle mucose nasali, si è capito meglio come l’infezione virale danneggia l’apparato respiratorio, ed è stato analizzato come le varianti genetiche possano influire sulla gravità della malattia e sul livello di rischio individuale.
La Chan Zuckerberg Initiative, la fondazione che fin dall’inizio è fra i principali promotori dell’atlante e che è di proprietà del numero uno di Facebook e Instagram Mark Zuckerberg, a oggi contribuisce al lavoro di 38 gruppi di ricerca internazionali, che complessivamente coinvolgono oltre 200 tra università e centri di ricerca.
La missione dell’atlante, però, può essere compiuta solo se si riesce a ottenere una rappresentazione completa ed esaustiva dei tipi di cellule, qualunque siano l’età, il sesso, l’etnia, l’ambiente di provenienza, lo stato socioeconomico e la suscettibilità alle malattie del soggetto cui ciascuna apparteneva. Un impegno che quindi deve essere necessariamente globale, con un’ampia partecipazione di istituzioni scientifiche basate in ogni regione del mondo, in modo che la copertura sia davvero completa e a beneficio di tutti. Su questo si è già imparato molto nel corso dei primi anni di lavoro, ma – come è stato scritto in un editoriale di Nature di fine 2020 – non bisogna arrestare gli sforzi, affinché lo Human Cell Atlas resti un progetto fatto dalle persone per le persone, fondato su partnership plurali e capace di assicurare autorevolezza e affidabilità. Non a caso i ricercatori dello Human Cell Atlas si sono anche apertamente schierati, proprio in virtù della propria missione, a fianco del movimento “Black Lives Matter”.
Nel frattempo, per citare un altro editoriale uscito su Nature, quella che nel 2016 sembrava solo una visione futuristica sta diventando realtà. Le potenzialità dello Human Cell Atlas per la medicina rigenerativa sono ormai sotto gli occhi di tutta la comunità scientifica. Stanno nascendo e sviluppandosi altri atlanti complementari e sinergici, come quello delle proteine umane. E il numero di cellule incluse nell’atlante sta continuando ad aumentare giorno dopo giorno. Insomma, sta prendendo forma quello che, con un’azzeccata metafora, la rivista The Atlantic aveva chiamato all’atto della fondazione “il Google Maps del corpo umano”.