La terapia con anticorpi monoclonali è una delle strategie più studiate nella lotta contro Covid-19. Vediamo insieme come funzionano questi anticorpi, come si producono e per trattare quali malattie sono già ampiamente usati.
Li sentiamo nominare sempre più spesso a proposito della ricerca di una cura contro Covid-19, ma gli anticorpi monoclonali sono in realtà studiati e utilizzati dagli scienziati e dai medici da lungo tempo, ben prima che l’epidemia dovuta al nuovo coronavirus si diffondesse. Già in uso da decenni nella cura di alcune malattie autoimmuni e tumori, si continuano a studiare per svilupparne di nuovi. In cosa si distinguono dagli anticorpi che il nostro organismo mette naturalmente in azione per difenderci dalle infezioni? Come sono stati scoperti? Come si producono? E, soprattutto, perché sono così utili e promettenti in medicina?
Che cosa sono gli anticorpi monoclonali
Il nostro corpo ha naturalmente in dotazione un proprio “esercito” per difendersi e superare le malattie, che chiamiamo sistema immunitario. Di questo fanno parte gli anticorpi, una moltitudine di proteine, ciascuna efficace contro un determinato potenziale “invasore”, che vengono prodotte da apposite cellule immunitarie. Possiamo immaginare gli anticorpi come veri e propri guardiani, capaci di riconoscere molto bene “il nemico” – specifiche parti di un virus o di un batterio, per esempio – tenendo bene a fuoco i suoi tratti caratteristici – in questo caso le proteine di superficie tipiche di quel virus o di quel batterio, chiamate antigeni –, di legarvisi saldamente e richiamare l’attenzione di altri agenti del sistema immunitario, che possono così attaccare e distruggere il patogeno.
Gli anticorpi monoclonali sono invece prodotti in laboratorio e progettati per affiancare quelli presenti nel corpo umano. Lo scopo? Spingere il sistema immunitario a intervenire, inibirne eventuali reazioni eccessive, o potenziarne l’azione contro una determinata infezione o patologia. Uno dei vantaggi degli anticorpi monoclonali, rispetto a quelli presenti in natura, è di poterli programmare affinché si dirigano in maniera selettiva contro un antigene scelto dai ricercatori, che viene predefinito in base al “nemico” da combattere. Affinché questo sia possibile, ciascuna “squadra” di anticorpi monoclonali identici deve essere prodotta a partire da un singolo clone di cellule in coltura (da qui l’appellativo monoclonali). È questo che consente a queste molecole di essere, all’interno di una squadra, tutte identiche, e comportarsi allo stesso modo nei confronti del proprio bersaglio. Un altro vantaggio è poter ottenere rapidamente e in modo affidabile una gran quantità di queste molecole, e conservarle a lungo nel tempo.
La produzione di anticorpi monoclonali è tuttavia un processo lungo e costoso, che presuppone non solo la coltura di apposite linee cellulari in laboratorio ma anche l’uso di tecnologie molto avanzate.
Un po’ di storia
Siamo nel 1975 quando, sulle pagine della rivista inglese Nature, fa il suo debutto una tecnica per produrre anticorpi con una specificità definita e predeterminata in particolari cellule in coltura, chiamate ibridomi, nate dalla fusione tra cellule di mieloma rapide a moltiplicarsi e linfociti in grado di fare uno specifico anticorpo. La tecnica è rivoluzionaria per le prospettive della ricerca in biomedicina, tanto che i due scienziati firmatari di quel primo articolo, gli immunologi Georges Köhler (Basel Institute for Immunology) e César Milstein (MRC Laboratory of Molecular Biology, Cambridge), meritano il premio Nobel per fisiologia o la medicina, nel 1984, insieme a Niels K. Jerne.
Dalla scoperta all’applicazione
Nei primi anni dalla scoperta, la tecnica per la produzione di anticorpi monoclonali viene utilizzata soprattutto per studiare gli anticorpi stessi, la loro evoluzione e i meccanismi molecolari alla base della selettività del legame tra antigene e anticorpo, ma in poco tempo queste molecole si fanno strada anche nella pratica medica. Da subito come strumenti diagnostici, per esempio per distinguere attraverso test di laboratorio le cellule cancerose da quelle sane sulla base dei diversi antigeni presenti sulla loro superficie, e poi anche sul versante terapeutico.
È il 1986 quando la Food and Drug Administration (FDA), l’autorità regolatoria degli Stati Uniti preposta alla regolamentazione dei medicinali, approva l’immissione sul mercato del primo anticorpo monoclonale per l’uso clinico nell’essere umano: si tratta di un cosiddetto immunosoppressore, un farmaco capace di ridimensionare la risposta immunitaria acuta nei pazienti sottoposti a un trapianto d’organo.
Cortocircuiti per l’infiammazione
Da quel momento e per tutto il corso degli ultimi trent’anni sono stati moltissimi gli anticorpi monoclonali entrati nella pratica clinica. Particolarmente importante è il ruolo che hanno assunto nel trattamento delle malattie autoimmuni. Sono usati in particolare per trattare condizioni infiammatorie come l’artrite reumatoide, le sindromi infiammatorie intestinali – per esempio il morbo di Crohn – e diverse forme di psoriasi. In tutti questi casi, legandosi a specifiche componenti del sistema immunitario, riescono a contenere le reazioni immunitarie eccessive (come l’infiammazione) che accomunano diverse malattie autoimmuni.
Nemici del cancro
Gli anticorpi monoclonali sviluppati per uso oncologico sono stati usati per il trattamento sia dei tumori solidi sia di quelli ematologici, con risultati in entrambi i casi molto incoraggianti. Alcuni di questi anticorpi sono entrati da tempo nella pratica clinica, come per esempio nelle terapie di melanoma, tumori del polmone e del rene, mentre molti altri sono oggetto di sperimentazione clinica.
Gli anticorpi monoclonali sono stati usati per veicolare selettivamente sulle cellule tumorali ligandi radioattivi e tossine; per influenzare l’ambiente dove il tumore prolifera, allo scopo di rallentare lo sviluppo della malattia mediante – per esempio – l’inibizione dei processi di vascolarizzazione che fanno crescere il tumore; o, semplicemente, per riconoscere gli antigeni presenti sulla superficie delle cellule cancerose e attivare contro di esse le “armate” del sistema immunitario.
Nel 2018 gli scienziati James P. Allison (Università del Texas) e Tasuku Honjo (Università di Kyoto) si sono visti assegnare il Nobel per la fisiologia o la medicina dopo essere riusciti a mettere a punto anticorpi monoclonali capaci di scatenare il sistema immunitario del corpo contro i tumori, scoperte che hanno aperto un intero filone di ricerca sulle terapie contro il cancro attraverso il controllo della regolazione immunitaria – che ha preso il nome di immunoterapia.
Uno spiraglio contro Covid-19
Attualmente è allo studio l’impiego degli anticorpi monoclonali per trattare patologie dovute a svariati agenti infettivi, anche se su questo versante la ricerca procede più lentamente che nelle terapie contro le malattie autoimmuni e oncologiche. Sono stati portati avanti studi per trattamenti contro la malaria, l’epatite B e C, l’influenza, l’HIV, il virus Ebola e, a partire dal 2020, il virus Sars-CoV-2, responsabile della pandemia di Covid-19. Prima che i vaccini anti-Covid siano disponibili su larga scala, uno degli strumenti più promettenti per trattare la malattia potrebbe venire infatti proprio dagli anticorpi monoclonali.
Lo stesso presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump, risultato positivo al virus, ha ricevuto un trattamento a uso compassionevole con un farmaco sperimentale a base di anticorpi monoclonali. Diverse case farmaceutiche in tutto il mondo sono al lavoro per mettere a punto questo tipo di terapie. Le sperimentazioni cliniche in corso sono numerose e alcune hanno già raggiunto la fase 3 della sperimentazione, lo studio clinico controllato randomizzato, fondamentale oltre che obbligatorio per stabilire l’efficacia dei farmaci.
Il principio su cui si basa la ricerca su questo fronte è questo: le persone venute a contatto con il virus, e in particolare chi ha sviluppato la malattia, hanno un’alta probabilità di produrre anticorpi di varia natura contro il virus; ciascun tipo di anticorpi legherà porzioni particolari di Sars-CoV-2, ed è verosimile che alcuni saranno in grado di legare quelle direttamente coinvolte nel meccanismo di infezione, impedendo così al virus di infettare ulteriori cellule del nostro organismo. Si tratta dei cosiddetti anticorpi neutralizzanti, particolarmente interessanti dal punto di vista terapeutico: con questi anticorpi, riprodotti artificialmente, si potrebbe infatti trattare i pazienti in modo rapido e, suggeriscono le prime evidenze, anche piuttosto prolungato. Queste molecole potrebbero insomma tutelarci provvisoriamente finché non saranno disponibili sufficienti dosi di vaccino e, anche successivamente, potrebbero essere utili a chi dopo la vaccinazione non è in grado di sviluppare una risposta immunitaria adeguata. Oltre, ovviamente, a fornire un trattamento immediato in caso di malattia.