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Animali elettrici (e cosa farne)

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Anguille, torpedini, pesci gatto: le creature capaci di “dare la scossa” sono davvero tante. Ma come fanno gli animali a generare elettricità? E che vantaggio ne traggono? Il punto su un “superpotere” che gli scienziati hanno anche tentato di sfruttare a vantaggio degli esseri umani.

A cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, numerosi scienziati avevano iniziato a studiare fenomeni elettrici in natura e anche negli animali. Fra questi, oltre al celeberrimo Luigi Galvani, vi furono anche il fisico e chimico Michael Faraday e il naturalista Alexander von Humboldt, che osservarono il comportamento delle anguille elettriche. Si tratta di pesci appartenenti al genere Electrophorus (un nome senza dubbio evocativo), imparentati più da vicino con i pesci gatto che con le anguille vere e proprie. Tra questi, Electrophorus voltai è in grado di generare tensioni elettriche fino a 860 volt, cioè quasi quattro volte la tensione media che esce dalle nostre prese domestiche.

L’anguilla elettrica è forse l’esempio più noto di pesce elettroforo. Ma non è l’unico: gli elettrofori annoverano anche razze, pesci gatto, lucerne e pesci elefante. Il meccanismo che permette loro di generare campi elettrici e scariche si chiama bioelettrogenesi ed è oggetto di studio dell’elettrofisiologia.

La bioelettrogenesi

L’elettrofisiologia studia appunto il passaggio di correnti elettriche nei tessuti: un fenomeno diffuso, che è alla base del funzionamento del sistema nervoso animale ‒ dove però le tensioni elettriche in gioco, corrispondenti a qualche millesimo di volt, sono incomparabilmente minori. Quando ci riferiamo nello specifico alla bioelettrogenesi, invece, prendiamo in considerazione meccanismi capaci di generare tensioni più consistenti.

Per esempio, è noto fin dai primi anni del Novecento che in alcuni microorganismi come batteri e lieviti (tra cui il comune lievito di birra, Saccharomyces cerevisiae) i processi di degradazione dei composti del carbonio sono associati al trasporto di elettroni attraverso la membrana cellulare e quindi alla produzione di una piccola corrente, con tensioni fino a circa 0,3-0,4 volt.

Negli animali i fenomeni di bioelettrogenesi sembrano essere esclusivi dei pesci: sono circa 350 le specie ittiche note, in grado di generare elettricità. Per esempio il pesce coltello e il pesce elefante sono due specie tropicali che possono essere allevate anche in un semplice acquario domestico e producono tensioni di bassa intensità, attorno a un volt (all’incirca quanto una pila elettrica di tipo AA). Con l’elettricità prodotta queste creature non stordiscono le prede ma si orientano, localizzando oggetti e ostacoli tramite elettrolocazione. Inoltre comunicano con altri pesci attraverso l’elettrocomunicazione. Alcuni pesci coltello, poi, sfruttano la generazione di correnti elettriche per emettere lunghe vibrazioni allo scopo di trovare un partner.

Ci sono anche pesci fortemente elettrici, che possono emettere tensioni superiori ai 10 volt. Tra questi, oltre all’anguilla e al pesce gatto elettrici, vi sono diverse specie di razze e torpedini. Alcune di queste creature vivono in acqua dolce, altre in acqua salata, e la conduzione dell’elettricità varia a seconda del grado di salinità. L’acqua salata, grazie alla presenza di ioni in soluzione, è in grado di condurre forti correnti elettriche anche a basse tensioni, il che permette ai pesci elettrici d’acqua salata di produrre tensioni più basse. L’acqua dolce, invece, oppone una resistenza maggiore al passaggio di corrente, quindi i pesci elettrici di queste acque devono generare tensioni maggiori.

La massima intensità di corrente nota prodotta dai pesci elettrici raggiunge all’incirca un ampere, più o meno pari a quella fornita dal caricabatterie di uno smartphone. L’esposizione a una corrente di questa intensità non è quasi mai mortale per un essere umano sano, ma l’esperienza non è piacevole. La maggior parte dei pesci fortemente elettrici è dotata di organi differenti per generare tensioni sia basse, sia alte: le prime sono prevalentemente usate nell’orientamento, nell’elettrolocazione e nella comunicazione, mentre le seconde servono a stordire le prede e a difendersi.

Tutti i pesci elettrofori sono anche in grado di captare campi elettrici: una caratteristica che li accomuna ad altri animali come l’ornitorinco e diverse specie di delfini, squali, ragni e api, che però non sono in grado di generare corrente.

Batterie animali

La produzione di energia elettrica in questi animali avviene in speciali organi che fungono da “generatori organici”, in numero ed estensione variabile in pesci debolmente e fortemente elettrici. Il pesce elefante, per esempio, possiede un solo organo elettrico, posto nella coda, mentre l’anguilla elettrica ne ha ben tre paia che complessivamente occupano quattro quinti del suo corpo. Gli organi elettrici sono costituiti da una rete di tessuto muscolare e neuronale modificato. Le cellule dove si genera l’elettricità, dette elettrociti, hanno una forma che ricorda una pila di Volta, con una struttura a dischi sovrapposti, e ogni giunzione tra i dischi è in grado di generare un potenziale elettrico di circa 0,15 V.

Il meccanismo con cui in queste cellule si genera una differenza di potenziale è sostanzialmente identico a quello che permette, su scala molto maggiore, la conduzione nervosa nelle giunzioni neuromuscolari negli animali. Grazie a processi biologici che consentono il trasporto di ioni attraverso la membrana cellulare, gli ioni positivi si concentrano all’esterno della cellula, e quelli negativi all’interno. Quando un opportuno segnale elettrico dal cervello raggiunge gli elettrociti, la polarità delle cariche a cavallo della membrana cellulare si inverte, dando luogo a una perturbazione analoga alla corrente alternata che si propaga lungo l’organo elettrico.

Alcuni aspetti del comportamento degli animali elettrofori sono decisamente sorprendenti. Per esempio, sono in grado di modulare il proprio segnale in modo da evitare interferenze con i segnali degli altri pesci. Inoltre quando attaccano prede particolarmente impegnative, alcuni si arrotolano su se stessi in modo da avvicinare le polarità opposte dei loro organi elettrici, aumentando così l’intensità del campo elettrico e della conseguente scossa. La preda colpita non viene uccisa dalla scossa in sé, ma i violenti spasmi che la percorrono causano un estremo affaticamento muscolare, analogo a quello causato da una crisi epilettica in un essere umano, che la rende incapace di difendersi o scappare.

Nel 1807 Alexander von Humboldt riportò che, durante una battuta di caccia alle anguille elettriche, queste erano balzate fuori dalle pozze d’acqua in cui si trovavano ed erano riuscite a stordire i cavalli lì presenti, due dei quali erano poi annegati. Soltanto di recente l’osservazione di Humboldt ha ricevuto una conferma da una ricerca della Vanderbilt University (USA). Quando un’anguilla elettrica si trova completamente immersa, la potenza della scarica si dissipa nell’acqua. Quando invece l’organo che produce la scarica, e che è posto vicino alla bocca, si trova fuori dall’acqua, possono essere colpiti animali immersi solo parzialmente nell’acqua stessa, come i cavalli. La corrente fluisce allora attraverso questo contatto e ritorna in acqua arrivando alla coda dell’anguilla, dove il circuito si chiude. La scossa così somministrata è molto più potente.

Come sfruttare la bioelettricità

Da tempo si discute della possibilità di costruire cellule artificiali capaci di mimare il comportamento degli elettrociti, così da usarle come sorgente di energia modulabile per impianti medici e altri dispositivi microscopici.

Per esempio, nell’ambito di una collaborazione tra ricercatori dell’università di Friburgo, in Svizzera, e del Michigan, negli Stati Uniti, sono state stampate delle reti di goccioline di idrogel contenenti ioni positivi e negativi disposti attorno a una membrana neutra. Tali reti sono state poi sovrapposte a strati pressati tra loro, in modo da imitare la struttura degli elettrociti e generare così delle correnti elettriche. È anche possibile creare campi elettrici di maggiore precisione, che si formano cioè solo nel momento desiderato, stampando goccioline positive e negative su sezioni diverse dello stesso piano e ripiegandole le une sulle altre.

Non è chiaro come mai i pesci elettrofori non rimangano folgorati dalla propria scossa. I ricercatori ipotizzano che i loro organi elettrici siano circondati da proteine con funzione isolante: identificare e studiare queste proteine potrebbe portare alla formulazione di nuovi farmaci anche per malattie neurodegenerative, come per esempio la sclerosi multipla, nella quale l’involucro isolante di mielina attorno ai neuroni va perso.

Silvia Kuna Ballero
Classe ’79, genovese di nascita e carattere, milanese d’adozione. Astrofisica, insegnante, redattrice scolastica, giornalista e divulgatrice con un interesse particolare per la storia della scienza e il rapporto tra scienza e società.
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