Sono domande che capita di porsi sin da bambini: perché i maschi hanno i capezzoli, se non allattano? Insieme ad altre strutture che dal punto di vista funzionale potrebbero essere considerate “inutili”, i capezzoli maschili possono insegnarci alcune cose sui processi evolutivi di selezione naturale.
Sei in una stanza silenziosa a lavorare alla scrivania, e a un tratto alle tue spalle senti un rumore improvviso. Magari è cascato un libro dalla libreria, o il tuo gatto si è messo a grattare la porta per chiederti di entrare. Prima che possa elaborare questa informazione, potresti accorgerti che una o entrambe le tue orecchie si sono mosse. Il movimento è piccolissimo, ma non lo hai immaginato: è come se per un attimo avessero cercato di orientarsi in modo da sentire meglio il rumore. Questi movimenti, quasi impercettibili, sono dovuti ai muscoli auricolari, che sono considerati organi “vestigiali”, ovvero la cui funzione (come orientare l’orecchio) è oggi poco utile. Si tratta di una sorta di residuo del passato evolutivo, quando, per i nostri antenati, avere quella capacità era effettivamente importante. La maggior parte delle specie di mammiferi, tra cui il tuo gatto, ha invece muscoli auricolari perfettamente funzionanti e utili a cacciare o a sfuggire ai predatori.
Le strutture vestigiali del corpo umano sono più di una: l’osso sacro, l’appendice, i denti del giudizio… Perché sono lì, se non “servono” più? Rispondere a questa domanda non è facile e tra gli esperti c’è parecchio dibattito sulle possibili interpretazioni. Innanzitutto, siamo certi che non servano più? Lo stesso Charles Darwin, ne “L’Origine delle specie”, invitava a non essere arroganti nel giudicare cosa sia importante per la sopravvivenza. Potrebbe sembrarci strano, per esempio, che un animale come la giraffa abbia una struttura complessa come la coda, la cui unica funzione sembra “solo” di allontanare gli insetti. Almeno finché non ci fermiamo a pensare al tormento incessante a cui gli insetti sottopongono questi quadrupedi e alle possibili conseguenze delle loro punture sulla loro salute, e quindi sulla sopravvivenza degli individui e della specie.
Uno dei casi più emblematici è quello dei capezzoli maschili. Nella grande maggioranza dei mammiferi solo la femmina è in grado di allattare la prole attraverso i capezzoli. Le eccezioni sono un paio di specie di pipistrelli, nelle quali anche il maschio può partecipare allo svezzamento dei piccoli. Grazie a valutazioni effettuate con un recentissimo sistema di analisi matematica, alcuni ricercatori negli Stati Uniti hanno proposto che l’allattamento da parte della sola femmina sia un adattamento per limitare la trasmissione di microbi dannosi alla prole. Attraverso il canale del parto e poi attraverso il latte, i piccoli di mammifero ricevono dalla madre i primi microbi che costituiranno il loro microbiota. Se anche i maschi allattassero, la quantità di microbi trasmessi, inclusi quelli potenzialmente nocivi, raddoppierebbe. L’allattamento esclusivamente materno ridurrebbe invece questo rischio.
Tuttavia in molti mammiferi, inclusa la nostra specie, il maschio ha comunque i capezzoli. Già Darwin, però, aveva notato che i capezzoli dei maschi umani non sono poi così rudimentali. Infatti, in alcune particolari circostanze, possono addirittura cominciare a produrre latte. È successo per esempio ad alcuni prigionieri di guerra durante la Seconda guerra mondiale. Nei campi in cui erano stati rinchiusi avevano patito la fame, e il ritorno alla normale alimentazione creò dei cambiamenti ormonali. Uno degli effetti secondari è stato appunto la produzione di latte. Questa condizione ha un nome, galattorrea, e può verificarsi anche nelle donne che non devono allattare.
La spiegazione di Darwin è quindi simile a quella ipotizzata per i muscoli auricolari. Nella storia dei mammiferi potrebbe esserci stato un momento in cui entrambi i sessi allattavano, ma in seguito i maschi avrebbero perduto questa capacità. In Homo sapiens e nella maggior parte delle specie la struttura per l’allattamento è però rimasta e può addirittura “funzionare” ancora in determinate circostanze, anche se nella stragrande maggioranza dei casi i capezzoli maschili sono inattivi.
Ma forse questa non è tutta la storia, come ha spiegato il paleontologo e divulgatore scientifico Stephen Jay Gould in un suo famoso saggio del 1992, contenuto nel libro “Bravo brontosauro” (Feltrinelli, 1992, traduzione di Libero Sosio). Nel saggio Gould ricorda quello che gli disse una volta Francis Crick, co-scopritore della struttura del DNA: “Perché voi evoluzionisti cercate sempre di trovare l’utilità di qualcosa prima di capire come è fatta?”.
In questo caso, prima di trovare una funzione (più o meno remota) ai capezzoli maschili, dovremmo chiederci come si formano. Maschi e femmine di ogni specie di mammifero hanno gli stessi geni. I sessi si differenziano durante lo sviluppo, ma il piano corporeo di fondo è lo stesso e dunque i capezzoli maschili e femminili sono tra loro omologhi, cioè hanno la stessa origine embrionale. Sarebbe forse più strano che i maschi non avessero assolutamente alcun residuo di capezzolo (e infatti succede in poche specie), indipendentemente dal fatto che queste strutture, nel loro caso, siano o meno servite a “qualcosa”.
Affinché i capezzoli maschili scompaiano del tutto nel corso dell’evoluzione dovrebbero verificarsi almeno due condizioni. La prima è che sia possibile l’evoluzione di un meccanismo per cui, durante lo sviluppo, i maschi non abbiano più i capezzoli senza che questo comprometta la funzionalità nelle femmine. La seconda è che il gioco valga la candela: se il “costo” evolutivo di mantenere gli inutili capezzoli maschili è basso e non ci sono particolari vantaggi nella loro eliminazione, allora non c’è pressione selettiva in questa direzione. La selezione naturale è infatti un filtro cieco, di strutture e funzioni che offrono o meno un vantaggio evolutivo agli individui portatori e alla loro progenie. Non è invece un’entità in grado di fare progetti.
Nello stesso articolo Gould propone una spiegazione analoga e speculare per l’esistenza dell’orgasmo femminile. L’orgasmo maschile coincide con l’eiaculazione ed è quindi necessario per l’eventuale concepimento. Non è così per l’orgasmo femminile, che deriva dalla stimolazione del clitoride, una struttura situata all’esterno della vagina e per questo non direttamente stimolata dalla penetrazione. La spiegazione, secondo Gould, è che il clitoride è una struttura anatomica e funzionale omologa al pene e viceversa, dato che hanno la stessa origine embrionale. Come nel caso dei capezzoli, non ci sarebbe bisogno di cercare una soluzione adattativa al mistero dell’orgasmo femminile, dato che sarebbe un sottoprodotto di quello maschile. Tuttavia, mentre la spiegazione di Gould per i capezzoli maschili è generalmente condivisa, non è così per l’orgasmo femminile e la questione è ancora dibattuta e controversa.
Se infatti è vero che il clitoride e il pene sono omologhi dal punto di vista dello sviluppo anatomico, è vero anche che l’orgasmo femminile sembra una reazione troppo complessa per essere solo un sottoprodotto. Tra le molte spiegazioni adattative che sono state avanzate, è stato per esempio ipotizzato che le contrazioni prodotte dall’orgasmo femminile possano “risucchiare” lo sperma. Secondo questa teoria, nota in inglese come upsuck theory, aumenterebbero così le possibilità di concepimento. Invece, nel libro “La scimmia nuda” (Bompiani, 1967, traduzione di Marisa Bergami), lo zoologo Desmond Morris proponeva addirittura che l’orgasmo “servisse” a far giacere orizzontalmente la donna, esausta dopo il coito, e che questo favorisse la ritenzione dello sperma. Si tratta però di spiegazioni adattative che, come indicato da Gould in alcune critiche, sembrano un po’ campate per aria e non sono dimostrabili sperimentalmente.
Forse per la risposta dovremmo guardare anche ad altre specie. Per esempio, pare che nelle femmine dei maiali la presenza di qualcosa di simile all’orgasmo aumenti leggermente la fertilità in termini di numero di nati per gravidanza. In un’ipotesi recente, alcuni ricercatori hanno proposto che l’orgasmo femminile (o il suo “antenato”) nei mammiferi fosse un tempo necessario per l’ovulazione. In quasi tutti i mammiferi (primati inclusi) l’ovulazione è infatti spontanea e segue dei cicli, ma in alcuni è indotta da stimoli, come la presenza del maschio o l’accoppiamento stesso. In queste specie la posizione del clitoride è generalmente all’interno della vagina, quindi è più facilmente stimolato durante il coito di quanto non accada nelle specie con ovulazione spontanea. Un esperimento ha rivelato che la fluoxetina, un farmaco che inibisce l’orgasmo umano, è in grado anche di bloccare l’ovulazione nei conigli, dove è indotta dall’accoppiamento. L’ipotesi dei ricercatori è che l’ovulazione richieda in queste specie una reazione simile, omologa, all’orgasmo femminile. Questa era possibilmente la condizione ancestrale dei mammiferi, ma nel corso dell’evoluzione la maggior parte dei gruppi ha abbandonato questa strategia ed è passata all’ovulazione spontanea. Il meccanismo originariamente responsabile dell’ovulazione, l’orgasmo femminile, è però rimasto, nonostante abbia perso tale funzione, ed è evidente e riconoscibile soprattutto nei primati. Questo, a ben vedere, non spiega perché si sia conservato, ma il fatto che non sia più necessario al concepimento non esclude che abbia acquisito una funzione secondaria, specialmente in specie altamente sociali e con una sessualità complessa e non sempre legata alla riproduzione, come appunto è il caso dei primati.
Un esempio sicuramente più familiare e meno controverso di struttura vestigiale è l’appendice cecale, più nota semplicemente come appendice. Si tratta di un piccolo prolungamento dell’intestino cieco che non sembra avere funzioni essenziali. Con tutta probabilità è il residuo di quando i nostri antenati digerivano la cellulosa e avevano bisogno di un tratto di intestino cieco molto più esteso in cui ospitare i batteri necessari. Quando l’appendice umana si infiamma è molto dolorosa, e se non si interviene rapidamente si rischia anche la vita. Uno dei rimedi è l’appendicectomia, cioè la sua rimozione. Una persona può vivere perfettamente senza appendice, col valore aggiunto che non rischierà mai più un’appendicite. Eppure studi relativamente recenti hanno evidenziato che, anche se non indispensabile per la sopravvivenza, l’appendice non sembra essere del tutto inutile. Presente in molti altri animali, ospita una riserva di batteri “buoni” e partecipa alle funzioni del sistema immunitario. Anche se ha perso la sua funzione originaria (digerire la cellulosa), ne avrebbe mantenuto o acquisito altre.
Insomma, gli scienziati usano il concetto di vestigialità in maniera generale, quando non è ben evidente quale sia il ruolo di una certa struttura nell’organismo. Le possibili spiegazioni sono però diverse e a volte molto complesse, perché ogni organismo attuale è il risultato di miliardi di anni di cambiamenti e adattamenti a diversi ambienti e situazioni.