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Che cosa sono i biomateriali e a che punto siamo con la loro applicazione in medicina

Mimano la “materia prima” originale del nostro corpo e promettono di riparare i tessuti più fragili o danneggiati. Una panoramica su questa frontiera della medicina.

Una ferita profonda o un’ustione sulla pelle, una frattura alle ossa o una lesione a un’articolazione. Ma anche un disturbo presente dalla nascita, come per esempio una valvola cardiaca che non funziona a dovere: se possiamo immaginare un futuro dove è possibile curare in modo rapido, prolungato e persino definitivo condizioni come queste, è soprattutto grazie all’avvento dei biomateriali. È così che in medicina si definiscono quelle sostanze “amiche” degli ecosistemi biologici, uno dei quali è appunto il nostro corpo: sostanze che vengono studiate o addirittura sviluppate in laboratorio per essere poi impiantate in modo da sostituire, o riportare alla piena funzionalità, porzioni di tessuti e organi che abbiano subito uno shock, siano sede di malattie come infezioni o tumori, oppure presentino danni legati all’invecchiamento o malformazioni congenite. Un’idea innovativa che alza l’asticella rispetto alla nostra classica idea di “farmaco” e di “intervento chirurgico”.

Di che “pasta” sono fatti i biomateriali

Il concetto di biomateriale ha un’origine molto remota nel tempo. Sin dall’antichità, – pensiamo per esempio a quanto facevano gli abitanti dell’Antico Egitto, i greci e poi i romani – non era strano che per le suture delle ferite i medici impiegassero i tendini degli animali o fibre vegetali, per esempio, e i reperti testimoniano che già esistevano le prime protesi (nemmeno troppo rudimentali) realizzate in legno.

Nel tempo l’offerta di sostanze, sia sintetiche sia naturali, che trovano un’applicazione medica di questo tipo si è fatta sconfinata: si va dai metalli (come l’acciaio inox, il cromo, il titanio), i materiali ceramici e il vetro, alle strutture con componenti biologiche, come cellule, tessuti o singole proteine (pensiamo al collagene, o alla cheratina), passando per una notevole varietà di polimeri con proprietà formulate appositamente in base all’applicazione. Tanto che la ricerca sui biomateriali è oggi un crocevia molto affollato tra medicina, biologia, chimica – ma anche fisica – e la cosiddetta tissue engineering, la disciplina che ha l’obiettivo di replicare artificialmente, con un’ottica ingegneristica, ciò che la natura compie ogni giorno con le cellule e gli organismi.

Biomateriali come “colonne portanti”

Un ambito clinico in cui l’utilizzo dei biomateriali è già rodato è sicuramente quello dell’ortopedia, in particolare quando l’impianto ha uno scopo prettamente strutturale, e non deve cioè interagire in modo attivo con i tessuti circostanti, bensì rimanere inerte. È il caso degli interventi che hanno come scopo, per esempio, la ricostruzione di alcune componenti delle articolazioni molto sollecitate, come l’anca e il ginocchio, dove metalli e matrici polimeriche possono andare a riparare o sostituire, rispettivamente, componenti ossee e cartilagini degradate. È il caso anche delle protesi dentali, degli impianti per la perdita dell’udito così come della sostituzione di componenti dell’apparato circolatorio, come per esempio le valvole cardiache e i vasi sanguigni.

A questo livello di applicazione le prerogative fondamentali dei materiali impiegati (oltre naturalmente alla biocompatibilità e alla necessità di generare minor danno possibile nel sito d’impianto) sono gli aspetti meccanici, come la resistenza alle sollecitazioni alle quali l’articolazione o l’organo interno coinvolto sono sottoposti, e, naturalmente, la durata nel tempo. Per le strutture metalliche è necessario avere sotto controllo il tasso di corrosione, per i polimeri la formazione di prodotti secondari: ogni tipo di materiale presenta, sotto questo punto di vista, specifiche sfide da affrontare.

Biomateriali in azione

Un ambito in cui la ricerca è molto attiva, ma che allo stesso tempo (per ora) è più povero di applicazioni cliniche, è l’utilizzo dei biomateriali come componenti funzionali, che assumano cioè un ruolo biologicamente attivo nel sito da curare. È il caso delle matrici e delle altre sostanze deputate ad accelerare la guarigione di un sito danneggiato, per esempio, stimolando la proliferazione cellulare o la vascolarizzazione. Alcuni esempi possono essere:

  • gli idrogel per la rigenerazione ossea, sostanze che possono incentivare, appunto, la crescita di nuovo tessuto osseo;
  • le medicazioni in grado di rimettere in moto o accelerare i processi di riparazione dei diversi strati della pelle in caso di grosse ferite o ustioni, come matrici con incorporati fattori di crescita tissutale o, direttamente, composti che contengono cellule e altre componenti derivati direttamente dal paziente e che vanno a sostituirsi alla pelle lesa;
  • un’ampia varietà di scaffold (letteralmente, impalcature) spesso porose e studiate appositamente per attecchire nel sito d’azione, accogliere e stimolare le cellule dei diversi organi o tessuti da curare;
  • vettori di cellule staminali che possano differenziarsi a seconda della sede di destinazione e riprodurre un tessuto o un intero organo così come lo desideriamo.

Ma, perché questo tipo di approccio entri a far parte dello standard della pratica clinica, la strada è ancora lunga. Tramite studi di laboratorio e poi clinici occorre infatti non solo provare che gli obiettivi di cura siano effettivamente raggiunti, ma anche che le tecnologie siano sicure e che gli eventuali effetti secondari siano limitati e tollerabili nel tempo.

Alice Pace
Giornalista scientifica freelance specializzata in salute e tecnologia, anche grazie a una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche e un dottorato in nanotecnologie applicate alla medicina. Si è formata grazie a un master in giornalismo scientifico presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste e una borsa di studio presso la Harvard Medical School di Boston. Su Instagram e su Twitter è @helixpis.
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