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Cos’è la risonanza magnetica?

Come funziona, a cosa serve e quali sono le sue controindicazioni

La risonanza magnetica nucleare (o semplicemente “risonanza magnetica”, o RM) è una tecnica di diagnostica per immagini che si basa sul comportamento degli atomi all’interno dei campi magnetici. Sviluppata a partire dagli anni Trenta grazie al lavoro pionieristico di fisici, chimici e medici, si è diffusa nella pratica clinica a partire dagli anni Ottanta ed è oggi diventata un metodo estremamente utile e non invasivo per visualizzare gli organi interni, permettendo di diagnosticare numerose malattie (e, in molti casi, di salvare vite).

Per capire come funziona la risonanza magnetica da un punto di vista fisico, partiamo dai nuclei di idrogeno, che sono sostanzialmente costituiti da singoli protoni. Il protone si comporta come un oggetto elettricamente carico che “ruota” su se stesso e, così facendo, genera un campo magnetico, il che lo rende in sostanza una piccolissima calamita.

Normalmente l’orientamento di queste calamite nei corpi è casuale. In un dispositivo per la risonanza magnetica, però, si utilizza un campo magnetico molto intenso capace di far allineare tutte le calamite costituite dai protoni alla sua direzione. A questo primo campo magnetico se ne affianca un secondo, di intensità variabile nel tempo, creato con impulsi di onde radio (radiazione elettromagnetica di bassa frequenza). I protoni assorbono l’energia di questo campo magnetico secondario e risuonano, cioè invertono il proprio senso di rotazione.

I protoni mantengono questa configurazione finché la sorgente di impulsi radio rimane accesa; dopodiché, quando viene spenta, si “rilassano” e tornano alla propria rotazione normale. Così facendo emettono un segnale radio che viene captato da un rivelatore situato nei pressi dell’area da esaminare: è questo segnale che viene utilizzato per creare le immagini elaborate dal computer collegato alla macchina.

A cosa serve e come si svolge l’esame

Perché la tecnica sfrutta proprio i nuclei di idrogeno o protoni? Perché sono presenti in grande quantità nel corpo umano, per esempio nelle molecole d’acqua e di grassi. L’acqua in particolare costituisce fino all’83 per cento di alcuni tessuti nel nostro corpo, e sia le sue proprietà sia la sua quantità possono essere alterate da numerosi processi traumatici o patologici.

Poiché il tempo impiegato dai protoni per “rilassarsi” cambia a seconda del tipo di tessuto cui appartengono, è possibile distinguere tessuti diversi, specialmente quelli molli, con un ottimo contrasto. La risonanza magnetica viene usata spesso nella medicina sportiva, per l’efficienza nella capacità di distinguere i vari elementi delle articolazioni e i muscoli, nell’analisi della struttura anatomica del cervello, e per diagnosticare ictus, tumori, aneurismi, problemi dell’occhio e dell’orecchio interno e condizioni patologiche del sistema nervoso centrale, come la sclerosi multipla o le lesioni spinali.

Per effettuare la risonanza magnetica, il paziente viene fatto distendere nel tipico “tunnel” del macchinario per tutta la durata dell’esame, che va dai 15 ai 90 minuti a seconda dell’area da esaminare. La procedura è totalmente indolore: tuttavia, il passaggio della corrente attraverso le bobine presenti all’interno dell’apparecchio genera rumori molto forti, che in alcune persone possono causare disagio, eventualmente aggravato dagli spazi ristretti all’interno del macchinario. Per questo, i pazienti possono scegliere di indossare tappi per le orecchie, oppure un visore e delle cuffie per isolarsi. Per i pazienti particolarmente sensibili, può essere necessaria la sedazione, visto che durante la scansione è importante che la parte esaminata rimanga immobile, pena un’immagine non nitida che vanificherebbe l’esame.

Come detto sopra, la risonanza magnetica non consente solo di ottenere immagini della struttura degli organi, bensì può essere impiegata, con alcuni accorgimenti, anche per visualizzare l’attività cerebrale. Una tecnica ormai molto utilizzata, principalmente nella ricerca, è la cosiddetta risonanza magnetica funzionale, basata sul fatto che la principale proteina contenuta nei globuli rossi, l’emoglobina, interagisce diversamente coi campi magnetici a seconda che trasporti o meno ossigeno. Il cervello consuma un’enorme quantità di ossigeno e, nelle sue aree attive, il flusso di sangue ossigenato sarà superiore rispetto alle altre. La risonanza magnetica funzionale permette quindi di capire quali aree cerebrali sono attive quando i soggetti ricevono un determinato stimolo o quando gli viene chiesto di fare una specifica azione. La risonanza magnetica funzionale è anche utilizzata sperimentalmente per valutare i possibili effetti sull’attività cerebrale di un trauma cranico, di una malattia (come l’Alzheimer) o dell’assunzione di determinate sostanze psicoattive.

Le controindicazioni della risonanza magnetica

L’energia posseduta dai campi statici e dalle radiazioni elettromagnetiche di bassa frequenza è troppo bassa per causare un danno diretto alle cellule. La risonanza dunque è sicura anche in gravidanza o per i bambini piccoli. Tuttavia, l’esame non è esente da potenziali pericoli, che il personale sanitario è tenuto a considerare in fase preparatoria per poter adottare le necessarie precauzioni.

I campi magnetici utilizzati e gli impulsi di onde radio, per esempio, possono interagire con gli oggetti metallici. Anche se non di frequente, sono stati riportati casi di ustioni causate dal riscaldamento di dispositivi, accessori, fibre o altri oggetti in materiale metallico a opera degli impulsi radio. Il campo magnetico dello scanner può anche interagire con oggetti ferromagnetici che i pazienti possono avere su di sé o all’interno del proprio corpo, col rischio di determinarne lo spostamento. C’è da dire che, per fortuna, per molte placche o chiodi chirurgici si utilizzano ormai speciali leghe di titanio, le quali non interferiscono in alcun modo con la risonanza. Sottoporsi a questo esame potrebbe comportare dei rischi, nello specifico, per chi presenta determinati tipi di clip per aneurismi, di valvole cardiache o di impianti cocleari, frammenti metallici da traumi precedenti, pacemaker o defibrillatori: tutti fattori di rischio che vanno valutati dal medico e dal tecnico prima dell’esame.

I campi magnetici di forte intensità possono inoltre indurre delle correnti elettriche microscopiche all’interno del sistema nervoso. Utilizzando campi magnetici di intensità superiore a quella normalmente impiegata nella pratica clinica, alcuni pazienti hanno riportato disagi temporanei, come capogiri e sapore metallico in bocca. Anche se non sono mai stati osservati effetti biologici a lungo termine, alcune ricerche suggeriscono, per precauzione, di far muovere i pazienti lentamente all’interno dei macchinari per la risonanza.

Un’altra variabile da tenere in considerazione prima di praticare una risonanza magnetica sono gli agenti di contrasto basati sul gadolinio, che in alcuni casi il medico può stabilire di somministrare al paziente. Questi agenti, modificando le proprietà magnetiche delle molecole d’acqua nel corpo, migliorano la qualità delle immagini e contribuiscono in molti casi a una diagnosi più accurata. In alcune categorie di pazienti, in particolare quelli che presentano gravi problemi renali, possono però risultare tossici. È compito dello staff medico valutare i vantaggi clinici dell’uso di questo tipo di agenti di contrasto e i rischi a esso associati in base allo stato di salute di ciascun paziente.

Silvia Kuna Ballero
Classe ’79, genovese di nascita e carattere, milanese d’adozione. Astrofisica, insegnante, redattrice scolastica, giornalista e divulgatrice con un interesse particolare per la storia della scienza e il rapporto tra scienza e società.
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