La storia ufficiale dell’AIDS comincia nel 1981, con il riconoscimento di una nuova sindrome misteriosa che si sta diffondendo negli Stati Uniti e con le prime pubblicazioni scientifiche che la descrivono. Oggi sappiamo che la sindrome è causata dal virus HIV, che ha verosimilmente avuto origine da un salto di specie dalle scimmie agli esseri umani, con tutta probabilità collocato molto più indietro nel tempo, forse addirittura nell’Ottocento.
Ogni anno, a partire dal 1988, il primo dicembre si celebra la Giornata mondiale contro la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), dedicata a tenere viva l’attenzione e la consapevolezza su un’epidemia che si stima abbia già ucciso più di 33 milioni di persone nel mondo. Ma la storia di questa malattia ha inizio molti anni prima.
Siamo da qualche parte nell’Africa sub-sahariana, nella regione dei grandi laghi o, più probabilmente, un po’ più a Ovest, in quello che oggi è il Camerun, in un momento indefinito dell’Ottocento o del Novecento. È qui che, in qualche modo, un virus patogeno già diffuso tra le scimmie, che oggi chiamiamo SIV (“Simian immunodeficiency virus”), è probabilmente mutato dando origine all’HIV (“Human immunodeficiency virus”) in grado di infettare anche gli esseri umani. Sul perché ciò sia verosimilmente accaduto non esiste una spiegazione precisa, anche perché i contatti tra esseri umani e scimmie ritenuti più a rischio – ossia quelli durante la caccia e la macellazione – avvenivano alla stessa maniera da secoli. L’unica novità erano i contatti ambientali tra le specie, sempre più stretti, dovuti al progressivo estendersi delle coltivazioni anche nella savana.
A oggi è ritenuto piuttosto probabile che la prima infezione di HIV in un essere umano sia avvenuta tra il 1908 e il 1941, anche se analisi recentissime concluse nel 2019 hanno mostrato che è plausibile si possa riavvolgere il nastro fino al 1881. Le prime descrizioni di quadri clinici compatibili con la sindrome dell’immunodeficienza umana acquisita risalgono invece al 1931, ma secondo altre fonti vi fu un episodio sospetto già nel 1920, quando in Congo un cacciatore risultò infetto dal virus SIV dopo una battuta di caccia.
Tuttavia, a oggi il primo caso scientificamente dimostrato di sieropositività è molto successivo, e datato al 1959, come confermato dalle analisi su un campione di sangue conservato per decenni.
L’inizio dell’epidemia fino all’arrivo dei primi farmaci
La prima fase dell’epidemia viene di solito ricordata come quella nascosta, in cui i casi scoperti erano ancora pochi e non si sapeva esattamente come catalogarli. All’epoca venivano diagnosticate sempre più polmoniti dovute al protozoo Pneumocystis carinii, un microrganismo che si moltiplica attivamente solo in individui con problemi nel sistema immunitario, la condizione tipica del soggetto HIV positivo. Tra gli studiosi cominciava a circolare l’ipotesi di una sorta di “mal sottile”, o tubercolosi, che si stava diffondendo in Africa e portava alla morte “per consunzione”. I numeri dei soggetti affetti da questa sindrome iniziarono a farsi importanti, e il problema sanitario attirò l’attenzione mediatica quando iniziò a interessare la popolazione degli Stati Uniti. Iniziava così una seconda fase, in cui si teorizzava che l’infezione fosse legata ad anomalie nel sangue oppure all’omosessualità. Inoltre si scoprì che poteva essere trasmessa dalle madri ai figli e si registrarono i primi contagi nei gruppi di eroinomani.
La conferma dell’origine virale della malattia arrivò nel 1982, mentre si diagnosticavano i primi casi anche in Canada, nell’America meridionale e in Europa. Nel 1983 Françoise Barré-Sinoussi dell’Istituto Pasteur di Parigi riuscì per la prima volta a isolare in pazienti con linfonodi ingrossati un retrovirus che attaccava alcuni globuli bianchi molto importanti per il funzionamento del sistema immunitario. Sempre in quel periodo all’Istituto Pasteur furono ottenute le prime immagini del virus grazie alla microscopia elettronica. Il virus, che è oggi chiamato HIV, è stato poco dopo dimostrato essere la causa dell’AIDS. Per la scoperta Françoise Barré-Sinoussi e l’allora responsabile del laboratorio, Luc Montagnier, hanno ricevuto il premo Nobel per la fisiologia o la medicina nel 2008.
Tornando al 1983, l’epidemia stava entrando nella terza fase, pandemica, in cui la trasmissione attraverso il sangue infetto, per esempio per trasfusione, ha fatto sì che il contagio raggiungesse pressoché tutti i Paesi del mondo.
Quando nel 1985 l’Organizzazione mondiale della sanità organizzò la prima conferenza internazionale sull’AIDS, l’intero comparto farmaceutico e della salute stava compiendo uno sforzo senza precedenti per trovare una soluzione terapeutica al problema.
Il primo trattamento specifico venne messo a punto, a tempo di record, nel 1987, con la somministrazione di azidotimidina o zidovudina (Azt), un farmaco capace di rallentare il progredire della sindrome. Poi, nel 1991, prese il suo posto la didanosina (Ddi), dal meccanismo simile ma che causava minori effetti collaterali. E poi, da lì al 1995, venne dimostrata l’efficacia di altri farmaci come il saquinavir, il 3Tc e il D4t, proprio mentre l’epidemia raggiungeva il suo picco.
Il 1996 fu un anno decisivo nella lotta all’HIV, poiché si passò dalla somministrazione della cosiddetta monoterapia – cioè un trattamento basato su un unico farmaco un inibitore dell’enzima della trascrittasi inversa virale – a una biterapia. Si capì infatti che i danni maggiori provocati dal virus avvenivano durante la replicazione del materiale genetico virale tramite proteine ed enzimi ben precisi che potevano essere il bersaglio di terapie. Somministrando cocktail di farmaci era possibile inibire sia le proteasi virali sia la già citata trascrittasi inversa, tentando di impedire la proliferazione del virus intervenendo sia sulla sua componente proteica sia sull’RNA virale.
Il primo inibitore della proteasi, messo a punto proprio nel 1996, venne utilizzato nell’ambito della terapia anti-retrovirale Haart, che ebbe grande successo grazie anche a un nuovo metodo per misurare la carica virale nei pazienti. A distanza di poco tempo entrarono nella pratica clinica altri farmaci complementari come la nevirapina, l’indinavir e il ritonavir. Anche se nessuna soluzione terapeutica fu risolutiva e capace di eradicare la malattia, la letalità e i ricoveri diminuirono nettamente, portando ottimismo. Dall’abacavir al nelfinavir, dalla delavirdina all’efavirenz, fino al lopinavir nel 2000, negli anni successivi tanti nuovi principi attivi permisero piccoli ma progressivi progressi nella capacità terapeutica e di cura di questa malattia.
Trattare l’HIV oggi
Come è facile immaginare, la speranza che da sempre accompagna la ricerca scientifica su HIV e AIDS è di riuscire a mettere a punto un vaccino. Tuttavia, nonostante numerose sperimentazioni su formulazioni che sulla carta avrebbero potuto funzionare, dopo diversi decenni di ricerca ancora non si è trovata una soluzione davvero efficace. L’ostacolo finora impossibile da superare risiede nelle caratteristiche biologiche del virus, che muta continuamente, migliaia di volte anche nel corpo di un singolo individuo infetto. Per queste ragioni il sistema immunitario non è in grado di riconoscere tutte le diverse varianti del virus e il traguardo di un vaccino anti-HIV è ancora lontano.
Fortunatamente esistono farmaci in grado di tenere sotto controllo l’infezione, purché la diagnosi sia precoce e tempestiva. Infatti le terapie anti-retrovirali sono tanto più efficaci quanto prima sono somministrate dal momento del contagio, permettendo sia di mantenere bassa la carica virale del paziente, sia di ridurre le probabilità di contagio tra le persone. Grazie alla combinazione dei trattamenti attualmente disponibili, è possibile cronicizzare la malattia, ossia garantire al paziente una buona qualità della vita, pur non eliminando del tutto l’infezione, e offrire un’aspettativa di vita paragonabile a quella dei pazienti con molte altre patologie croniche, come il diabete o l’ipertensione.
I trattamenti utilizzati oggi per la cura dei molteplici effetti di questa malattia sono molti. Contro le polmoniti dovute a Pneumocystis carinii si somministrano terapie profilattiche specifiche. Vi sono anche stati rarissimi casi di persone che hanno eliminato il virus dall’organismo in seguito a un trapianto di midollo osseo da donatore con una specifica variante genetica resistente al virus. Il trapianto tuttavia era motivato dal tentativo di curare un tumore del sangue ed essendo una procedura rischiosa non è un trattamento di routine per i malati di AIDS. Altre strategie allo studio sono basate su particolari combinazioni di peptidi, oppure su piante transgeniche che esprimono alcuni dei geni dell’HIV.
A livello sanitario sono importanti anche le strategie di prevenzione. In assenza dei vaccini, è infatti decisivo evitare l’esposizione al virus, per esempio somministrando farmaci anti-retrovirali subito dopo un contatto a rischio.
Prima ancora, per evitare l’infezione è fondamentale usare il preservativo e incoraggiare le pratiche di circoncisione che, rimuovendo il prepuzio, eliminano cellule particolarmente sensibili al contagio. Inoltre occorre migliorare i programmi di assistenza e di educazione sessuale, diffondere le terapie preventive necessarie a evitare la trasmissione madre-bambino, ed effettuare i controlli sulle donazioni di sangue e di organi. Sull’importanza di ognuna di queste azioni ritorna ogni anno la Giornata mondiale contro l’AIDS, ricordando che la malattia è lontana dall’essere sconfitta. In Italia le statistiche parlano di un aumento delle infezioni contratte tramite rapporti sessuali, nonché dei nuovi contagi in persone sotto i 25 anni. Complessivamente, nel nostro Paese si diagnosticano poco meno di 3.000 nuovi casi all’anno.