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Di cosa si occupa la medicina nucleare?

Immettere traccianti radioattivi nel nostro corpo può aiutarci a misurare il funzionamento degli organi e a individuare delle condizioni patologiche. Vediamo quali esami vengono eseguiti, come vengono realizzati e se ci sono dei rischi per la salute del paziente.

In medicina si usano da tempo sorgenti di radiazioni esterne al corpo per esempio per ottenere immagini tramite raggi X o per trattare i tumori con la radioterapia. Si tratta di tecnologie che usano rispettivamente sottoprodotti dell’energia nucleare o direttamente radiazioni ionizzanti. Un’altra applicazione in questo campo è quella dei cosiddetti radiofarmaci, utilizzati in medicina nucleare e costituiti da sostanze radioattive introdotte a scopo diagnostico o terapeutico all’interno del paziente. L’idea nacque negli anni ’20, quando il chimico ungherese George Charles de Hevesy, che avrebbe poi meritato il premio Nobel per le proprie ricerche, iniettò sostanze radioattive nei ratti per studiarne il metabolismo. Vediamo come funziona la medicina nucleare oggi, a quasi un secolo dalla sua invenzione.

Come funziona la diagnostica nucleare

Un radiofarmaco è a grandi linee una sostanza composta da due componenti: una parte farmacologicamente attiva, capace di raggiungere tessuti o organi specifici, e una parte radioattiva, che consiste in un elemento chimico instabile (detto radionuclide). I radiofarmaci utilizzati sono scelti di volta in volta in base all’organo da studiare o da trattare: dopo essere stati somministrati (solitamente per via endovenosa) entrano nel metabolismo corporeo, senza alterarlo, e sono assimilati dai tessuti di interesse.

La diagnostica nucleare si basa sul fatto che i tessuti del nostro corpo, per funzionare, assorbono certe sostanze, la cui concentrazione in un dato tessuto può essere alterata (aumentata o diminuita) dalla presenza di uno stato patologico: per esempio, le cellule tumorali consumano molto più glucosio delle altre cellule, mentre in alcune malattie della tiroide si formano noduli nei quali lo iodio viene scarsamente assorbito. Un radiofarmaco che intenda mimare il comportamento di queste sostanze si accumulerà perciò in quantità maggiori o minori nelle zone esaminate a seconda della patologia.

La concentrazione del radiofarmaco potrà essere misurata grazie alla sua porzione radioattiva: dopo un tempo di attesa variabile, la cui durata dipende soprattutto dai tempi del processo fisiologico da studiare (da meno di un minuto a qualche giorno), le radiazioni emesse sono captate da opportuni rivelatori e trasformate in segnali elettrici, i quali a loro volta sono tradotti, tramite una specifica dotazione informatica, in immagini.

Modificando leggermente il sistema di acquisizione delle immagini, inoltre, questi esami possono essere svolti in modo statico o dinamico: si può ottenere quindi la singola immagine in un dato momento o un “film” che mostra l’evoluzione nel tempo della funzionalità di un organo.

La scintigrafia

La forma più semplice di esame diagnostico nucleare è la scintigrafia, così chiamata dal fenomeno della scintillazione. Si tratta della radiazione emessa da un radionuclide che, attraversando certi cristalli, provoca un breve impulso elettromagnetico (o scintilla) che può essere catturato e amplificato da rivelatori appositi.

Nella scintigrafia, si usano degli apparecchi detti gamma-camera, perché i radiofarmaci emettono raggi gamma, cioè fotoni ad alta energia. La gamma-camera rileva questi fotoni e li distingue da quelli ambientali utilizzando vari metodi, per esempio i collimatori, elementi forati che permettono di escludere fotoni gamma provenienti da direzioni diverse rispetto a quelli emessi dal paziente.

La scintigrafia ha un’ampia gamma di impieghi, come la misurazione della funzionalità della tiroide e dei reni, l’individuazione di fratture e malattie ossee, o la diagnosi di ostruzioni biliari dovute a calcoli o tumori. Si utilizza anche per esplorare la funzione polmonare prima o dopo un’operazione e individuare eventuali embolie polmonari, che possono mettere a repentaglio la vita del paziente: in quel caso, è possibile anche confrontare la distribuzione di due traccianti, uno inalato e uno iniettato.

SPECT e PET

La SPECT (Single Photon Emission Computer Tomography, o tomografia computerizzata a emissione di fotone singolo) si differenzia dalla scintillazione per il fatto che le immagini sono acquisite tramite una gamma-camera che può ruotare di 360 gradi, permettendo così la ricostruzione di un’immagine tridimensionale.

La SPECT può essere richiesta da un neurologo per confermare la malattia di Parkinson e distinguerla da altre forme di demenza, ed è l’esame più efficace per misurare la funzionalità cardiaca sotto stress e individuare zone di ischemia (dove cioè il tessuto è male irrorato dal sangue). Marcando direttamente il sangue del paziente con traccianti radioattivi, la SPECT offre inoltre la possibilità di localizzare tempestivamente emorragie interne altrimenti difficili da trovare.

Anche la PET (“Positron emission tomography, tomografia a emissione di positroni) restituisce immagini tridimensionali, ma al contrario della SPECT impiega radiofarmaci che decadendo emettono l’antiparticella dell’elettrone, detta positrone. Le antiparticelle hanno una proprietà particolare: urtando le particelle corrispondenti, si disintegrano producendo energia sotto forma di fotoni. Quando il radiofarmaco emette un positrone, quindi, questo incontra quasi subito un elettrone, e i due fotoni così formatisi “schizzano” in direzioni opposte. Il tomografo PET, che ha la forma di una ciambella disposta intorno al corpo del paziente, rileva i due fotoni in contemporanea, dalla loro direzione ricostruisce la posizione dell’organo da cui sono stati emessi e ne compone l’immagine.

Un farmaco usato di frequente per la PET è l’FDG (fluoro-deossi-glucosio), un composto che si comporta in modo simile al glucosio e che contiene come parte radioattiva il fluoro-18. L’FDG viene utilizzato per ottenere informazioni sul metabolismo dell’organo studiato, dato che le cellule con metabolismo accelerato tenderanno ad assorbirne molto. In questo modo si può studiare un’ampia varietà di fenomeni tumorali, neurologici (come la malattia di Alzheimer), cardiologici, infettivi e infiammatori. Di solito poi la PET e la SPECT si combinano a una tomografia computerizzata (TC) per integrare le informazioni strutturali e funzionali ricevute. La PET ha in genere una miglior risoluzione di scintigrafia e SPECT, ma è anche molto più costosa.

La medicina nucleare in ambito terapeutico

Le tecniche di medicina nucleare hanno anche importanti impieghi terapeutici. Le terapie radiometaboliche prevedono la somministrazione di radionuclidi che, grazie al legame con molecole specifiche, raggiungono e contribuiscono a distruggere i tessuti malati.

I radiofarmaci usati in terapia sono quasi sempre differenti rispetto a quelli usati in diagnostica perché, anziché raggi gamma, emettono particelle. Queste dissipano tutta la loro energia in uno spazio molto limitato, con tempi di dimezzamento rapidi: un’azione mirata che risparmia i tessuti sani, in modo più preciso rispetto alla radioterapia convenzionale o alla brachiterapia.

Attualmente sono approvate terapie che utilizzano lo iodio-131 per trattare l’ipertiroidismo e i tumori della tiroide; l’ittrio-90 per curare lesioni cancerose del fegato e di alcuni linfomi; il lutezio-177, combinato con un analogo dell’ormone somatostatina, per i tumori neuroendocrini; e il cloruro di radio per gestire le metastasi allo scheletro causate dal carcinoma alla prostata. La ricerca nel campo delle terapie radiometaboliche è molto attiva, e sono allo studio un gran numero di altri isotopi per il trattamento di malattie tumorali e non.

La medicina nucleare è rischiosa?

La medicina nucleare è considerata sicura e non è dolorosa; per il paziente si riduce a un’iniezione o, al più, all’applicazione di un catetere. La dose di radioattività è smaltita velocemente dato che il tempo di dimezzamento dei radionuclidi usati è molto rapido. Tuttavia il termine “nucleare” suscita ancora reazioni di paura nel pubblico.

Oggi le quantità di radiofarmaci somministrate sono tipicamente inferiori al milligrammo, e la dose di radioattività assorbita è paragonabile, se non inferiore, a quella somministrata per un esame di radiologia (e decisamente inferiore a quella a cui si è sottoposti durante un volo intercontinentale). Inoltre, nel corso di oltre mezzo secolo di utilizzo clinico, è stato rilevato un numero molto ridotto di reazioni allergiche alle componenti dei radiofarmaci.

Per le donne in gravidanza o in allattamento e i bambini, naturalmente, sono necessarie delle considerazioni aggiuntive: gli esami nucleari si effettuano solo se ritenuti indispensabili (e non rimandabili), se il beneficio che ne deriva giustifica il rischio legato all’esposizione alle radiazioni, e adottando precauzioni particolari (per esempio, diminuendo ulteriormente la quantità di radiofarmaco).

Silvia Kuna Ballero
Classe ’79, genovese di nascita e carattere, milanese d’adozione. Astrofisica, insegnante, redattrice scolastica, giornalista e divulgatrice con un interesse particolare per la storia della scienza e il rapporto tra scienza e società.
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