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Gli organoidi sono il futuro della ricerca biomedica?

Le colture cellulari in tre dimensioni, che approssimano la struttura degli organi umani, hanno applicazioni che spaziano dallo studio dei tumori alla farmacologia, e in futuro sperabilmente anche ai trapianti. Tuttavia, il loro sviluppo scientifico è agli albori e ci sono da affrontare diverse questioni etiche.

Riprodurre in laboratorio gli organi umani, con tanto di struttura tridimensionale, facendoli crescere senza che debbano trovarsi all’interno di un organismo, ma in laboratorio: i primi esperimenti risalgono agli anni Ottanta del secolo scorso, ma fino a poco tempo fa tutto questo sembrava fantascienza. Non si tratta – per il momento – di copie identiche, ma di versioni semplificate e su scala ridotta di un organo vero e proprio, di cui ricalcano alcune delle proprietà strutturali e delle funzioni. I ricercatori in campo biomedico li chiamano organoidi, e rappresentano una delle frontiere più interessanti di molte discipline, tra cui la bioingegneria e lo studio delle cellule staminali, per la miriade di applicazioni a cui già si prestano e potrebbero potenzialmente prestarsi.

A essere già state riprodotte con successo sono strutture di diversa complessità: dal fegato al rene, dall’intestino alla retina, arrivando anche al cervello e alla pelle. Tipicamente un organoide raggiunge una dimensione massima di qualche centimetro e, pur non potendo ricalcare fedelmente il funzionamento all’interno dell’organismo, potenzialmente è un modello più attendibile di una più limitata coltura in due dimensioni.

Il punto di partenza per la crescita dell’organoide è di solito una cellula staminale. In particolare, si possono impiegare le staminali embrionali totipotenti, che sono immature e possono differenziarsi in tutti i tipi di tessuto, oppure le cellule adulte mesenchimali, ossia già differenziate ma indotte a tornare alla fase staminale e a riprendere la plasticità tipica di quel periodo di crescita. Se coltivate con tecniche opportune, queste cellule possono non solo differenziarsi, ma anche assumere spontaneamente una conformazione tridimensionale, attraversando tutte le fasi della cosiddetta organogenesi fino a diventare simili a parti del corpo in miniatura.

A cosa possono servire gli organoidi?

C’è l’imbarazzo della scelta. Una prima direzione di ricerca riguarda il processo stesso con cui gli organoidi vengono ottenuti: lo studio della dinamica di crescita e dei fattori che la influenzano ha aperto nuovi filoni di ricerca nella biologia dello sviluppo, perché permette di analizzare in laboratorio ciò che è molto difficile da osservare quando avviene all’interno di un embrione in fase di crescita.

Il campo più promettente e che fa da propulsore all’uso di organoidi, tuttavia, riguarda la ricerca oncologica e più in generale la farmacologia. Avere a disposizione un tumore che, seppure un po’ semplificato, può crescere con tutte le sue componenti in tre dimensioni in laboratorio può aiutare i ricercatori a capire meglio le sue caratteristiche. In alcuni casi con gli organoidi si possono testare farmaci o altre soluzioni terapeutiche, con un’affidabilità e un’accuratezza che promettono di essere superiori rispetto ai test più classici. Dagli screening di tossicità ai test delle singole molecole farmacologiche, si possono anche prevedere applicazioni nella medicina di precisione o nello studio delle patologie ereditarie, prelevando per esempio le cellule di partenza da uno specifico paziente.

In termini ancora più futuristici, questi mini-organi potrebbero un domani essere fatti crescere al punto da diventare organi trapiantabili negli esseri umani stessi, oppure essere utilizzati quali elementi di partenza per la rigenerazione di un organo danneggiato.

Qualche attrito etico

Gli organoidi sono una tecnologia giovane, in forte crescita ed evoluzione, e come per ogni nuovo progresso ha fatto nascere qualche questione etica che deve essere affrontata dalla società, in modo che la ricerca possa proseguire nel rispetto e nella consapevolezza dei possibili problemi. La rivista Science dedicato a questo tema un articolo già nel 2017.

Gli organoidi potrebbero farci superare la necessità della sperimentazione animale? È possibile, qualora il loro sviluppo portasse ad alternative altrettanto affidabili se non addirittura migliori. Gli esperimenti con animali di laboratorio presentano al momento alcune limitazioni insuperabili – basti pensare allo studio delle malattie neurodegenerative, dove le differenze tra il cervello umano e quello degli altri animali raramente permette confronti attendibili. A oggi tuttavia gli organoidi sono ancora un passo indietro in quasi tutti i campi. Il motivo? Per quanto la riproduzione dell’organo in miniatura possa approssimare l’originale, manca ancora il resto dell’organismo, con tutto ciò che esso determina e comporta.

Non è un caso che parte della ricerca si stia focalizzando sullo sviluppo di organoidi che abbiano anche vascolarizzazioni e terminazioni nervose, in modo da riprodurre almeno in parte ciò che entra nell’organo, e dall’organo esce, tramite il sangue e i nervi.

Se gli organoidi vengono dotati di terminazioni nervose, possono avere percezioni sensoriali? Spingendoci in là con l’immaginazione, gli organoidi potrebbero un giorno diventare forme di vita indipendenti e dotate di capacità cognitive? Il tema si pone anche dal punto di vista legale, nel caso delle sperimentazioni che coinvolgono cellule staminali embrionali, per le quali il limite normativo stabilito in 14 giorni massimi – valido in Italia ma pure in molti dei Paesi che hanno adottato una normativa ad hoc, dal Canada a Singapore e alla Svezia – può essere superato per portare a termine gli esperimenti. Il tema tuttavia si pone soprattutto quando con gli organoidi si tenta di ottenere approssimazioni di un cervello, in particolare dopo che si è osservato che i neuroni sono in grado di organizzarsi in reti funzionali e dare origine a impulsi analoghi a quelli cerebrali tipici degli stadi iniziali dello sviluppo embrionale.

E non finisce qui. Altri interrogativi etici riguardano la prospettiva di una richiesta sempre maggiore di cellule staminali embrionali, e la distinzione sempre più sfumata tra attività di ricerca scientifica e applicazioni di cura (al momento normate in modo differente).

Alcuni traguardi scientifici raggiunti

Senza avere la pretesa di ripercorrere una a una le pubblicazioni scientifiche sugli organoidi, alcuni risultati recenti possono dare un’idea dello stato dell’arte della ricerca. Come ha raccontato la rivista Nature, gli organoidi sono per esempio diventati cruciali anche nello studio del nuovo coronavirus Sars-Cov-2, non solo per svolgere test preliminari su potenziali farmaci, ma anche per studiare l’effetto del virus su specifici organi come i polmoni, il fegato e i reni, che non a caso sono quelli in cui si osservano più di frequente le complicanze della malattia Covid-19.

Allo stesso tempo, sono già realtà le applicazioni sperimentali per valutare la risposta dei pazienti alle terapie. Per esempio, per il cancro del colon-retto gli organoidi si sono dimostrati utili, almeno in esperimenti di laboratorio, nel predire gli effetti della chemio e della radioterapia sulle cellule tumorali. È di agosto 2020, poi, la notizia della creazione di un mini-pancreas antirigetto, che è stato impiantato nei topi dopo essere stato ottenuto da cellule staminali umane, e che ha dato dimostrazione di combattere il diabete giovanile di tipo 1.

Sempre nell’estate 2020, un altro gruppo di ricerca dell’università del Michigan è stato in grado di sviluppare in laboratorio un cuore umano dotato di tutti i tipi di cellule cardiache primarie e di una struttura molto simile – seppur in miniatura – a un vero muscolo cardiaco umano. Una riproduzione così fedele da permettere di sviluppare cuori affetti da cardiopatia congenita, facilitando di molto lo studio della sua origine e dei possibili modi per contrastarla.

Gianluca Dotti
Giornalista scientifico freelance e divulgatore, si occupa di ricerca, salute e tecnologia. Classe 1988, dopo la laurea magistrale in Fisica della materia all’università di Modena e Reggio Emilia ottiene due master in comunicazione della scienza, alla Sissa di Trieste e a Ferrara. Libero professionista dal 2014 e giornalista pubblicista dal 2015, ha tra le collaborazioni Wired Italia, Radio24, StartupItalia, Festival della Comunicazione, Business Insider Italia, Forbes Italia, OggiScienza e Youris. Su Twitter è @undotti, su Instagram @dotti.it.
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