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HIV: storia di un virus da sconfiggere

All’inizio degli anni Ottanta del Novecento, una malattia contagiosa sconosciuta stava distruggendo le difese immunitarie di sempre più persone. All’epoca l’infezione, che oggi sappiamo essere dovuta all’HIV, era poi fatale quasi in tutti i casi. Ma, grazie ai rapidi progressi della ricerca, da decenni è possibile convivere con l’infezione senza contagiare gli altri. Sono in corso gli studi per trovare cure ancora migliori e per un vaccino efficace.

 

Potrebbe essere andata così. Intorno al 1920, in Africa, un pescatore scese con la sua canoa lungo il fiume Sangha e arrivò a Leopoldville, nell’allora Congo belga (oggi la città si chiama Kinshasa e il Paese è la Repubblica Democratica del Congo). Il pescatore sembrava in perfetta salute, eppure è possibile che dentro di sé albergasse un virus mortale. Si era infettato attraverso uno o più rapporti sessuali con una donna che aveva incontrato in Camerun durante il suo viaggio. La donna, a sua volta, aveva forse contratto il virus da un altro uomo. Da alcuni anni questo virus, che sarebbe rimasto ancora sconosciuto per oltre mezzo secolo, si stava lentamente diffondendo tra le popolazioni umane, inizialmente soprattutto in Africa. Ma chi era stato il paziente zero, ossia il primo essere umano a venire in contatto con il virus? Potrebbe essere stato un cacciatore che, addirittura attorno al 1908, si sarebbe ferito trasportando o macellando uno scimpanzé infetto. Il virus che si trovava nello scimpanzé era un po’ diverso dall’HIV, che oggi colpisce la nostra specie. Questo ci dice che, una volta entrato nel corpo del cacciatore, il virus degli scimpanzé aveva cominciato a modificarsi e ad adattarsi ai nuovi ospiti umani, grazie a un alto tasso di mutazione tipico di questi virus e al processo di selezione naturale. Una volta arrivato Leopoldville, traportato nel corpo dei propri ospiti, il virus trovò un ambiente ideale per diffondersi: una grande città in espansione con una diffusa prostituzione. Al contagio avrebbero in seguito contribuito anche campagne vaccinali in cui si sarebbero riutilizzavate siringhe non sterilizzate.

È così che David Quammen ci racconta, nel suo libro Spillover (Adelphi, 2014), come potrebbe essersi originata la pandemia di AIDS, malattia causata dal virus HIV. Non sapremo mai se il Viaggiatore (come lo chiama Quammen) era davvero un pescatore, chi ha davvero incontrato e quando, ma le ricostruzioni della storia genetica e storica su cui si è basato il celebre divulgatore non sono in discussione. L’HIV si è certamente evoluto da un virus SIV, cioè da un suo omologo che infettava le scimmie, per la precisione da una variante che era presente negli scimpanzé del Camerun. Gli scimpanzé sono tutt’ora cacciati dalle popolazioni locali per la carne, ed è ragionevole supporre che sia così che è avvenuto il cosiddetto spillover, o salto di specie. In seguito il virus ha verosimilmente iniziato ad adattarsi ai nuovi ospiti, ma sappiamo che i primi focolai epidemici importanti si sono verificati intorno al 1920 nelle città coloniali del Congo e non in Camerun. In qualche modo il virus deve essere arrivato lì. Allora i fiumi erano una delle vie più comuni per spostarsi, e ha perfettamente senso che il virus abbia viaggiato in canoa, nel corpo dei primi ospiti. Purtroppo la storia era appena cominciata.

La pandemia di AIDS da allora ha fatto decine di milioni di morti nel mondo. Oggi se ne parla di meno, ma non è affatto scomparsa. Mentre si continua a cercare di migliorare le attuali terapie, l’Africa è ancora uno dei continenti che pagano il prezzo più alto. Ma la ricerca non si ferma.

 

L’inizio della crisi

Era il 1981 quando negli Stati Uniti i medici diedero il primo allarme. In California e a New York uomini giovani e apparentemente sani si erano ammalati di una rara forma di polmonite causata dal protozoo Pneumocystis carinii, inusuale per l’età; ad altri era stato invece diagnosticato il sarcoma di Kaposi, un raro cancro della pelle. A volte erano presenti entrambe le malattie. Che cosa stava succedendo?

Oggi sappiamo che dopo l’infezione, l’HIV rimane latente, a volte senza causare alcun sintomo riconoscibile per molti anni. Gradualmente, però, distrugge il sistema immunitario aprendo la strada a infezioni opportunistiche, ossia a malattie il cui sviluppo è normalmente impedito da difese immunitarie funzionanti. Infatti, colpisce in particolare un tipo di linfociti, i T helper, fondamentali per difenderci da numerose minacce infettive e non. Un sistema immunitario in forze è essenziale anche per eliminare precocemente molte cellule cancerose.

All’epoca, questi aspetti non si conoscevano – l’HIV non aveva nemmeno un nome. Ma se ne vedevano gli effetti. In poco tempo, in tutto il mondo si scatenò una crisi sanitaria e sociale. Inizialmente si pensò che il nuovo morbo fosse limitato alla comunità omosessuale maschile e a quella dei tossicodipendenti, che erano tra le più colpite, ma non era così. Anche se con meno efficienza, l’infezione si poteva trasmettere attraverso qualunque rapporto sessuale non protetto, ma anche attraverso le trasfusioni di sangue e i trapianti d’organo, e dalle donne ai bambini durante la gravidanza o il parto. La malattia fu chiamata sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) ancora prima che si sapesse quale fosse l’agente infettivo causale.

Da subito si sospettò di un virus, che fu identificato nel 1982 dal gruppo di ricerca di Robert Gallo, negli Stati Uniti, e separatamente nel 1983 dal gruppo di ricerca di Luc Montagnier e Françoise Barré-Sinoussi, in Francia. Successivamente, Montagnier e Barré-Sinoussi hanno ricevuto il premio Nobel per la fisiologia o la medicina, non senza polemiche per l’esclusione di Gallo. Nel 1985 Robert Gallo sviluppò anche il primo test con cui identificare sangue infetto da HIV, che cominciò a essere usato sia a scopo diagnostico sia per controllare il sangue per le trasfusioni. I due gruppi, in competizione tra loro, chiamarono il virus in modo diverso, ma nel 1986 fu chiaro che si trattava dello stesso patogeno, che fu infine battezzato HIV. Era un retrovirus a RNA, appartenente al genere lentivirus.

 

Lo sviluppo delle terapie

Nei primi anni della crisi non solo non c’erano farmaci, ma i malati stessi avevano anche ben poche informazioni su come potevano affrontare la terribile malattia, dalla prevenzione alla diagnosi alla gestione dei sintomi. Oltre a tutto questo, i pazienti erano oggetto di molti pregiudizi, associati anche al fatto che la malattia era soprattutto diffusa in gruppi già discriminati per il loro orientamento sessuale, per comportamenti promiscui o per l’uso di droga. I pazienti però cominciarono ad auto-organizzarsi: negli Stati Uniti nacquero per esempio i “buyers club”, gruppi che acquistavano e distribuivano ai membri medicinali non approvati, nella speranza di fare qualcosa. Uno dei farmaci distribuiti, l’azidotimidina (AZT), sembrava effettivamente promettente. Scoperta negli anni Sessanta da ricercatori che studiavano tumori di origine virale, è stato il primo farmaco risultato efficace contro i retrovirus. Nel 1984 si scoprì che impediva la replicazione anche di HIV. Dopo gli studi sugli esseri umani, la Food and Drugs Administration (FDA), l’ente statunitense per la regolamentazione dei medicinali, approvò il farmaco a tempo record nel 1987.

Purtroppo, però, l’AZT aveva pesanti effetti collaterali, specialmente con gli alti dosaggi usati all’epoca. Inoltre, varianti di HIV erano in grado di adattarsi velocemente, grazie a mutazioni in grado di renderle resistenti al farmaco. La malattia sembrava davvero difficile da fermare. In alcuni ambienti cominciò addirittura a diffondersi l’idea che l’AZT fosse peggiore del male stesso. Ma fortunatamente dopo l’AZT arrivarono altri antiretrovirali, diversi per meccanismo di azione, e i clinici impararono a usare il darwinismo a vantaggio dei propri pazienti. La monoterapia con la sola AZT venne abbandonata, e contro l’HIV si cominciarono a usare più farmaci antiretrovirali, anche in combinazione con la stessa AZT. In questo modo i ceppi resistenti soltanto all’uno o all’altro farmaco non potevano durare a lungo. Questo tipo di strategia fu chiamata HAART, acronimo inglese che in italiano sta per terapia antiretrovirale altamente efficace.

Dal 1996, con continui progressivi miglioramenti, siamo arrivati alle cure di oggi contro l’HIV e l’AIDS, che non possono eradicare il virus, ma riescono a tenerlo a bada, ripristinando e preservando il sistema immunitario, oltre a ridurre drasticamente il rischio di trasmettere l’infezione. Grazie a queste terapie, l’HIV non è più una condanna a morte e la trasmissione tra partner sessuali, nonché da madre a figlio, si è molto ridotta.

Purtroppo, negli anni più drammatici della crisi si sono diffuse numerose teorie infondate che negavano il nesso causale tra HIV e AIDS e quindi la necessità di diagnosi e terapie. Una delle più dannose era stata diffusa ad arte in Africa dai servizi segreti russi. La campagna di disinformazione accusava gli Stati Uniti della creazione del virus quale arma per eliminare la popolazione nera, rallentando enormemente l’adesione alle cure e contribuendo a milioni di morti evitabili. Questo però spiega solo in parte come mai il numero di morti nel mondo abbia continuato ad aumentare ogni anno fino a raggiungere un picco di circa 2 milioni nel 2004. Le terapie e le informazioni per prevenire l’infezione esistono da tempo, ma non sono state ugualmente accessibili a tutti, soprattutto inizialmente, quando i prezzi per i Paesi poveri erano inarrivabili. Nei Paesi più ricchi, tra cui l’Italia, il numero di morti e infezioni ha invece cominciato a calare subito dopo l’introduzione di HAART.

L’Africa continua a pagare il prezzo più alto: nel 2022 nel mondo sono morte di AIDS 630.000 persone, di cui 380.000 solo in questo continente. Eppure, anche lì dove tutto è iniziato, le morti e l’incidenza sono diminuite di oltre la metà rispetto al 2010 grazie alla riduzione dei prezzi dei farmaci e agli sforzi umanitari.

 

E la cura?

Il successo della terapia HAART nei Paesi sviluppati ha un po’ intiepidito gli sforzi per trovare cure più risolutive o un vaccino. Ma il motivo principale per cui non esistono ancora è che HIV è, oggettivamente, molto difficile da eliminare. Il suo materiale genetico, convertito in DNA, si integra in quello delle cellule del nostro sistema immunitario che dovrebbero combatterlo. Costruisce così dei serbatoi (in gergo scientifico, reservoir), essenziali alla fase di latenza, in cui i virus sono inattivi (e mentre l’HIV è inattivo può eludere le difese immunitarie ed è poco attaccabile dai farmaci). Inoltre, e possono riprendere in qualunque momento a fabbricare nuove particelle virali. Il virus usa quindi le cellule che infetta per “nascondersi” e riprodursi.

L’HIV resta poco riconoscibile anche grazie alla sua rapidissima evoluzione. All’interno di una singola infezione e di un singolo organismo, questo virus muta infatti migliaia di volte, mostrando ogni volta fattezze diverse alle cellule che dovrebbero riconoscerlo ed eliminarlo. Infatti, una volta che le cellule della memoria hanno incontrato il patogeno, possono riattivare la risposta immunitaria in tempi rapidi nel caso in cui dovessero reincontrarlo. Ma l’HIV, grazie alle mutazioni, non è mai identico e quindi sfugge a questi controlli.

Non è però detta l’ultima parola. Esistono casi eccezionali di persone guarite da HIV grazie a un trapianto di cellule staminali che hanno “sostituito” le cellule originali del sistema immunitario. Questi interventi sono stati necessari a causa di altre malattie, come leucemie o linfomi, e le cellule dei donatori avevano particolari mutazioni che impedivano l’attecchimento di HIV. Non si tratta quindi di una cura che è possibile replicare in milioni di persone, ma dimostra che il virus non è invincibile. Ci sono poi una serie di casi, altrettanto eccezionali, dove il sistema immunitario dei pazienti è riuscito a tenere sotto controllo l’infezione senza terapia HAART. Il virus è ancora presente, ma è sistematicamente combattuto con successo dal sistema immunitario.

 

Verso terapie più efficaci

Al momento sembra improbabile sviluppare una “cura sterilizzante”: persino nei pazienti trapiantati rimane sempre ancora qualche copia del materiale genetico del virus, integrata nel DNA dell’ospite: si è scoperto che anche alcune cellule cerebrali possono funzionare da serbatoi. Sembra più praticabile sviluppare una “cura funzionale”, che cioè riesca a impedire in qualche modo la replicazione del virus per un tempo indefinitamente lungo.

Sono allo studio diverse strategie, e oggi molte di queste prevedono tecniche di editing genetico come CRISPR/Cas9, una tecnica di “taglia e cuci” molto precisa del DNA. Per esempio, si potrebbero trapiantare cellule staminali geneticamente modificate per essere resistenti all’infezione. In questo modo non ci sarebbe bisogno di aspettare il donatore con la giusta mutazione, e si potrebbero anche “guarire” e ritrapiantare le cellule del paziente stesso (tramite trapianto autologo). Ma l’editing genetico potrebbe anche essere usato per una terapia genica in grado di “correggere” le cellule malate direttamente nei pazienti, rimuovendo selettivamente il materiale genetico di origine virale.

Un’altra strada prevede di sviluppare farmaci che “smascherino” i reservoir, rendendo le cellule infette attaccabili anche da altri farmaci o dallo stesso sistema immunitario. Oppure il farmaco giusto potrebbe riuscire a “disinnescare” la bomba a orologeria dei reservoir, cioè a impedire che il materiale genetico virale possa riattivarsi, rimanendo così “intrappolato”.

 

A che punto è la ricerca sui vaccini contro l’HIV?

C’è speranza per un vaccino contro questo virus, nonostante i molti fallimenti? Con il fatto che il virus continua a mutare, è estremamente difficile costruire un vaccino che stimoli il sistema immunitario a riconoscere antigeni virali stabili. Per questo i tantissimi vaccini candidati sviluppati finora non hanno avuto successo.

Oggi una delle strade più promettenti è quella basata sugli anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro, come ha spiegato recentemente l’immunologo e virologo Guido Poli sulle pagine di Scienza In Rete. Questi anticorpi sono estremamente efficaci contro l’HIV perché si legano a una regione del virus molto conservata, cioè che tende a non cambiare nella veloce evoluzione del virus. Si pensa che fino al 10 per cento dei pazienti sviluppi questi anticorpi, ma questo succede solo dopo anni dall’infezione, quando il virus è ormai ben radicato. Questi anticorpi possono essere clonati e sono già usati insieme alla terapia antiretrovirale, ma gli scienziati stanno anche cercando di capire come indurre il sistema immunitario a produrre rapidamente quelli più efficaci contro HIV, tramite, appunto, un vaccino.

Tutti questi approcci sono allo stadio sperimentale, più o meno avanzato, e purtroppo non è possibile prevedere quando e se arriveranno ulteriori cure e finalmente un vaccino. Ma è importante che la ricerca prosegua. Come dice Poli: “Come sempre nella scienza, è bene sottolineare che i progressi nella ricerca di un vaccino anti-HIV beneficeranno sicuramente anche lo sviluppo di altri vaccini contro importanti malattie infettive non ancora debellate, dall’influenza a SARS-COV-2.”

 

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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