Cos’è il dolore? Quanti tipi di dolore esistono? Come e perché può diventare cronico? E in questo caso, con che farmaci si può trattare? Facciamo il punto.
Il dolore a volte è un salvavita: in certi casi ne sono consapevoli, per esempio, le persone che soffrono di un raro disturbo, l’insensibilità congenita al dolore. Il loro corpo non produce o non elabora i segnali di dolore che li metterebbero in allarme e li spingerebbero a curarsi. Per questo sono a rischio di grave invalidità o perfino di morte, a causa di lesioni o malattie che rischiano di passare inosservate.
Tuttavia, il dolore può trasformarsi a sua volta in un problema di per sé quando diventa persistente e di intensità sproporzionata rispetto agli stimoli fisici che ne sono la causa, o quando addirittura si manifesta anche in loro assenza. Non è più, a questo punto, un sintomo protettivo, bensì una vera e propria condizione patologica che va riconosciuta e trattata.
Una classificazione del dolore
Nel 2010, il neurobiologo Clifford J. Woolf propose una classificazione del dolore sulla base dei meccanismi neurologici che lo generano e lo modulano. Secondo questa ripartizione, possiamo suddividere il dolore in quattro tipi:
La cronicizzazione del dolore
A livello neurochimico si può descrivere la percezione del dolore come un processo in due fasi. Nella prima fase, neuroni periferici ricevono e trasmettono uno stimolo doloroso che risale il midollo spinale, attraversa l’area cerebrale del talamo e giunge alla corteccia cerebrale. Dal talamo, viene poi reinviato al midollo spinale un segnale che controlla e inibisce la trasmissione del dolore.
Se un paziente subisce uno stimolo doloroso continuativo (per esempio in caso di danni ai tessuti, di un processo infiammatorio che non si risolve o, ancora, di malattie periferiche non trattate), dopo un certo periodo di tempo il sistema di controllo del dolore “deraglia” e si verifica la cosiddetta allodinia, un meccanismo clinico che fa sì che anche gli stimoli innocui, come la pressione, causino dolore. Questa condizione è inizialmente reversibile, ma alla lunga può generare delle modificazioni neurochimiche permanenti responsabili della cronicizzazione del dolore, rendendo il sintomo più difficile da trattare.
Di recente è emerso che fattori cognitivi, comportamentali e ambientali possono favorire o ostacolare lo sviluppo del dolore cronico, e che esiste una forte associazione tra i disturbi dell’umore e la capacità di controllare il dolore da parte del nostro sistema nervoso.
Gli analgesici oppiacei
Il dolore cronico moderato e grave è piuttosto difficile da controllare e quando è intollerabile e non risponde ad antidolorifici come i FANS (v. sotto), può a volte essere trattato con gli oppiacei. Questi ultimi sono farmaci molto potenti, ma anche problematici per i rischi di dipendenza. Derivano dal lattice del Papaver somniferum. Dopo millenni di uso medicinale e ricreativo dei derivati dell’oppio, nel diciannovesimo secolo ne furono isolati i principi attivi e fu compreso il potenziale farmacologico per il trattamento del dolore. In farmacologia si usano due tipi di oppiacei di origine naturale, morfina e codeina, e diverse sostanze semi-sintetiche (per esempio l’ossicodone, il fentanyl, la buprenorfina e il metadone). Ognuna di queste molecole ha caratteristiche specifiche e, prima di decidere quale eventualmente prescrivere, il medico curante deve valutare il quadro clinico, la storia del paziente e il rischio di indurre una dipendenza.
Oltre alla dipendenza, di cui diremo a breve, gli altri effetti collaterali degli oppiacei consistono in nausea e vomito, depressione respiratoria e stitichezza. Mentre la stitichezza perdura per tutto il trattamento (ma può essere limitata modificando le proprie abitudini alimentari), nausea e vomito diminuiscono solitamente entro qualche giorno, così come il rischio di arresto respiratorio, che non è mai significativo alle dosi usate in terapia, mentre va considerato se l’oppiaceo viene assunto in dosi tossiche o in concomitanza con altri farmaci (come i sedativi) o sostanze (come l’alcol).
Tolleranza e dipendenza
Ciò che più preoccupa degli oppiacei è la dipendenza, sia fisica che psicologica, causata dal fenomeno biologico di desensitizzazione. Si tratta della riduzione dell’effetto di un farmaco dopo un’assunzione prolungata, dovuta al fatto che i recettori degli oppiacei presenti sulle cellule nervose diminuiscono con l’uso del farmaco stesso. Le conseguenze sono sia la tolleranza (cioè la necessità di aumentare le dosi per ottenere lo stesso effetto) sia la dipendenza. In queste condizioni, la sospensione brusca di un oppiaceo induce una crisi di astinenza con sintomi (battito cardiaco e respiro accelerati, tremori, crampi allo stomaco, sudorazione, naso che cola, spasmi muscolari, nausea, vomito e diarrea) che, anche se della durata di pochi giorni, possono essere estremamente difficili da superare. Per l’insieme di queste ragioni, che possono anche portare a dipendenze gravi, abusi e a overdose, gli oppiacei sono farmaci che vanno usati con estrema cautela e la cui prescrizione è strettamente regolata e controllata per legge.
Il medico curante può tentare di limitare la tolleranza variando o rimodulando la terapia, tramite la somministrazione di altri antidolorifici come il paracetamolo e i farmaci antinfiammatori non steroidei (i cosiddetti FANS), oppure di medicinali (corticosteroidi, ma anche antidepressivi e antiepilettici) contenenti principi attivi che potenziano l’azione degli oppiacei, evitando così di dover aumentare le dosi. È anche importante che il medico segua il paziente nell’eventuale interruzione della terapia: scalando la dose gradualmente, spesso è possibile evitare del tutto la sindrome da astinenza.
La dipendenza da oppiacei è anche legata all’effetto che queste sostanze esercitano sul circuito neurologico della ricompensa: il rilascio del neurotrasmettitore dopamina in seguito all’assunzione di questi farmaci dà un senso di piacere e benessere, che spinge le persone a cercare nuovamente la sostanza.
Dal punto di vista legislativo, in Italia la situazione dei pazienti con dolore cronico è cambiata con l’introduzione della legge 38 del 2010, che ha segnato un punto di rottura col passato, agevolando l’accesso alle terapie del dolore, fino a quel momento ostacolato da impedimenti anche burocratici. Rispetto all’uso permangono tuttavia molte resistenze non solo culturali che, nel nostro Paese come in altri, spesso portano sia i medici sia i pazienti a evitare del tutto tali sostanze, anche in quei casi (come il dolore neuropatico o il dolore da cancro) dove sarebbe indicato.
Peraltro, il rischio di abuso degli oppiacei è un problema serio e reale ovunque essi siano utilizzati. Negli Stati Uniti è tuttora in corso una vasta e grave epidemia di dipendenza da oppiacei, originata principalmente dal comportamento illegale e fraudolento di un’azienda. Per anni tale azienda ha commercializzato e pubblicizzato i propri farmaci con informazioni false e fuorvianti sulla bassa probabilità che potessero dare dipendenza.
FANS e paracetamolo: quale ruolo nel dolore cronico?
Capita che medici e pazienti, per i dolori ricorrenti moderati o severi, si limitino a ricorrere ai FANS (acido acetilsalicilico, ibuprofene, diclofenac, per esempio) o al paracetamolo. Da soli, però, sono spesso poco adeguati a trattare il dolore cronico.
Neppure i FANS sono privi di effetti collaterali: possono infatti determinare reazioni avverse anche importanti principalmente a carico del sistema cardiovascolare e gastrointestinale, oltre ad aumentare i rischi a carico del fegato e dei reni, nei quali vengono metabolizzati. Il loro utilizzo deve essere dunque limitato nel tempo.
Anche il paracetamolo, sebbene sia in genere meglio tollerato dei FANS, ad alte dosi diventa tossico per il fegato e va assunto con cautela dalle persone in età avanzata o deperite e dai consumatori cronici di alcol, per cui il rischio di danni permanenti al fegato è maggiore.
I cannabinoidi
Vanno anche menzionati i cannabinoidi, principi attivi derivanti dalla Cannabis sativa: i più rilevanti sono il THC (delta-9-idrocannabinolo) e il CBD (cannabidiolo). La cannabis viene consumata soprattutto per i suoi effetti psicoattivi, riconducibili al THC. Sebbene gli studi sugli usi medici della cannabis siano stati limitati dal fatto di rientrare fra le sostanze d’abuso e i dati siano limitati, essa è usata nel trattamento del dolore cronico, in combinazione con gli oppiacei o come trattamento esclusivo per pazienti che non rispondono agli altri farmaci. Dal 2017 in Italia viene prodotta cannabis a scopo terapeutico nello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Il prodotto, denominato FM2, è da consumare in forma di decotto.
Gli usi medici riconosciuti per i cannabinoidi riguardano il trattamento del dolore cronico da sclerosi multipla e associato alle lesioni del midollo spinale, nonché altri trattamenti legati indirettamente a situazioni di dolore: per esempio, possono essere usati per limitare la nausea e il vomito nei pazienti oncologici sottoposti a chemioterapia, radioterapia e trattamenti contro HIV/AIDS (pazienti nei quali sembra stimolare anche l’appetito, combattendo così il loro deperimento fisico).
È importante, anche in questo caso, essere ben consci degli effetti collaterali, tra cui un aumento del rischio di problemi cardiovascolari, respiratori e immunitari e nervosi. In particolare, a causa dei loro effetti sullo sviluppo neuronale, i cannabinoidi possono determinare un deterioramento cognitivo, specialmente tra gli adolescenti, e vanno quindi usati con estrema cautela, soprattutto nelle persone più giovani.