La stimolazione neurale come “arma” contro alcune malattie: lo stato dell’arte della ricerca su questo versante della scienza medica.
Interferire con l’attività elettrica dei circuiti nervosi che regolano i meccanismi fisiologici del nostro corpo, per bloccare sul nascere le malattie o per sedarne i sintomi. È questo l’obiettivo che si vorrebbe raggiungere con la bioelettronica, una disciplina che negli ultimi anni ha attirato l’attenzione della ricerca medica, in particolare per le opportunità di trattamento di diversi disturbi cronici. Su che principi si basa e quali risultati ha dato finora? Vediamolo insieme.
La scienza alla base della medicina bioelettronica
Alcune malattie possono causare alterazioni a livello del sistema nervoso, in particolare per quanto riguarda i neurotrasmettitori e gli impulsi elettrici che viaggiano lungo i nervi nei diversi distretti del corpo. Con la bioelettronica, la medicina punta proprio a ripristinare il corretto funzionamento di questi circuiti.
I mezzi a disposizione sono, in questo caso, non i farmaci e i loro principi attivi, bensì elettrodi inseriti in piccoli dispositivi da mettere a contatto con i nervi tramite un’operazione chirurgica, al fine di determinare effetti terapeutici. Per il coinvolgimento degli elettrodi, la disciplina è anche a volte chiamata elettroceutica.
Lo stato dell’arte
L’idea generale di trattare una patologia usando gli impulsi elettrici ha una lunga storia nella pratica clinica: pensiamo al pacemaker, un dispositivo grande come una moneta che viene impiantato sottopelle nei pressi del cuore dei pazienti con aritmia (ormai dalla fine degli anni Cinquanta). Anche i ben più recenti impianti cocleari per il trattamento di alcuni tipi di sordità sono costituiti da una parte del dispositivo che viene impiantata chirurgicamente nell’osso che circonda l’orecchio (osso temporale). Qui si trova un ricevitore-stimolatore, che accetta, decodifica e quindi invia un segnale elettrico al cervello. La seconda parte dell’impianto cocleare è invece un dispositivo esterno, costituito da un microfono-ricevitore, un processore vocale e un’antenna, che riceve il suono, lo converte in un segnale elettrico e lo invia alla parte interna dell’impianto.
Il più recente, complesso caso di applicazione dell’elettrostimolazione in medicina è quello della cosiddetta Deep Brain Stimulation, o stimolazione cerebrale profonda. Si tratta dell’impianto di sottilissimi elettrodi (chiamati elettrocateteri) in aree strategiche del cervello per mitigare alcuni sintomi caratteristici di disturbi come la malattia di Parkinson, in particolare il tremore. Si procede in questo caso con un intervento neurochirurgico per posizionare i dispositivi in modo da inviare impulsi elettrici a specifici gruppi di neuroni – quelli rilevanti per il controllo motorio, come il nucleo subtalamico e il segmento interno del globo pallido – con l’obiettivo di regolare i segnali che portano ai sintomi più debilitanti della malattia.
L’approvazione dei primi interventi di stimolazione profonda per contrastare i sintomi del Parkinson da parte della Food and Drug Administration (o Fda, l’ente statunitense che si occupa di regolamentare i medicinali così come le procedure mediche), come terapia aggiuntiva ai trattamenti convenzionali, risale alla fine degli anni Novanta. Successivamente la tecnologia è stata approvata anche per il trattamento di disturbi come la distonia, che procura contrazioni muscolari involontarie, il tremore essenziale e, più di recente, anche per curare alcune forme di epilessia, di dolore cronico e di alcuni disturbi ossessivo-compulsivi. Ma, trattandosi di una procedura invasiva, viene riservata a pazienti con determinati prerequisiti e che non rispondono ai farmaci.
Guardando al futuro
In alcuni recentissimi studi, i ricercatori stanno cercando di capire se sia possibile agire non solo a livello centrale, come avviene nel caso della stimolazione neuronale profonda, ma anche sui circuiti del sistema nervoso periferico, coinvolto nell’insorgenza e la progressione di numerose malattie. In particolare l’attenzione degli scienziati è concentrata sulla possibile neuromodulazione del nervo vago, un importantissimo collegamento tra il tronco cerebrale e molti altri organi. Si indaga sulla possibilità che la stimolazione vagale possa agire per esempio sui disordini infiammatori, che comprendono malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide e il morbo di Crohn.
Nonostante i notevoli passi avanti nella miniaturizzazione dei dispositivi e i progressi delle scienze dei materiali, la comprensione dei meccanismi attraverso i quali l’elettrostimolazione potrebbe provocare gli effetti voluti è ancora oggetto di studio. Inoltre, non è da escludere che la stimolazione di un determinato nervo possa non essere sufficientemente selettiva, e avere quindi un’influenza anche sulle fibre circostanti, con conseguenze non desiderabili o comunque imprevedibili. Per quanto le potenzialità della bioelettronica siano affascinanti, e gli investimenti nel settore cospicui, le sfide che questa disciplina deve affrontare sono ancora molte, e siamo ben lontani dal poterla considerare una panacea.