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Scoperte serendipiche – Il pacemaker di Chardack-Greatbatch

Mentre costruiva un dispositivo che registrasse il ritmo cardiaco, un ingegnere statunitense si ritrovò in mano (per errore) un transistor capace di creare pulsazioni molto simili a quelle del battito del cuore.

Ogni anno vengono impiantati oltre un milione di pacemaker, dispositivi medici che regolano il battito cardiaco quando il cuore non è più in grado di farlo da solo. All’interno di quest’organo, infatti, esiste un gruppo di cellule, anch’esse chiamate pacemaker, che “danno il passo”, secondo la traduzione in italiano. Il compito di queste cellule, che è regolare il battito attraverso impulsi elettrici, può essere alterata in diverse malattie. I pacemaker artificiali servono proprio a compensare questi problemi e salvano molte vite umane. Se oggi questi dispositivi sono impiantati nel petto di milioni di pazienti in tutto il mondo è merito di una persona e di un suo specifico “errore”: l’ingegnere statunitense Wilson Greatbatch.

L’errore giusto alla persona giusta

Wilson Greatbatch, nato nel 1919 a Buffalo (New York), si considerava un humble tinkerer”, espressione che nel linguaggio di oggi si potrebbe forse tradurre come “un modesto smanettone”. Fin da adolescente era appassionato alla tecnologia radio e ne aveva approfondito la conoscenza in marina durante la Seconda guerra mondiale, lavorando nelle comunicazioni. Congedato dall’esercito, si era iscritto alla Cornell University, dove si era laureato in ingegneria elettronica nel 1950, per poi specializzarsi alla State University of New York nel 1957.

Mentre studiava, Greatbatch manteneva, lavorando, anche la sua famiglia: nel 1945 si era infatti sposato con Eleanor Wright Greatbatch, con cui era fidanzato dai tempi delle scuole superiori. Fu proprio in questi anni, in particolare nel 1956, che per un errore la sua vita cambiò radicalmente, e assieme a lui quella di svariati milioni di persone.

Greatbatch, da sempre affascinato dalle possibili applicazioni delle nuove tecnologie alla medicina, stava cercando di costruire un apparecchio a transistor per registrare il battito cardiaco che potesse rivelarsi utile a identificare potenziali problemi di salute. Ma quando allungò la mano nella cassetta dei componenti per prendere un resistore (un elemento del circuito che si oppone al passaggio di corrente) ne afferrò uno troppo grande. Per questo motivo, in fase di test l’apparecchio cominciò a emettere degli impulsi elettrici in un modo che ricordava da vicino il ritmo del battito cardiaco.

Ingegnere e medico, fianco a fianco

Greatbatch intuì subito cos’aveva per le mani: un piccolo dispositivo che, perlomeno in linea teorica, avrebbe potuto essere impiantato per sostituire il pacemaker naturale difettoso nelle persone malate di cuore. Con l’aggiunta di una batteria per garantirne il funzionamento a lungo termine, il dispositivo avrebbe potuto “rimpiazzare” gli impulsi elettrici mancanti delle cellule difettose e il muscolo cardiaco avrebbe ricominciato ad “andare al passo”. Era un’idea che aveva sempre accarezzato, ma solo in quel preciso momento comprese che era realizzabile, grazie sia all’errore compiuto sia alla miniaturizzazione resa possibile dalla diffusione dei transistor.

Ottenuta la specializzazione e lasciata l’accademia, Greatbatch cominciò a lavorarci assiduamente. Il problema principale era riuscire a costruire qualcosa che fosse in grado di funzionare in un ambiente completamente diverso da un laboratorio asettico, e cioè il corpo di un essere vivente. Dopo molti tentativi, ottenne un prototipo incapsulato all’interno di una resina e alimentato da una batteria al mercurio-zinco. Non era però un medico e, per compiere il passo successivo, gliene serviva uno che credesse nella sua idea.

Nel 1958 trovò il suo alleato nel chirurgo William Chardack del Veteran’s Hospital di Buffalo. Assieme all’assistente di Greatbatch, il dottor Andrew Gage, collegarono gli elettrodi del dispositivo al cuore esposto di un cane, senza però impiantare (per il momento) il dispositivo nell’animale. La procedura chirurgica, infatti, doveva ancora essere inventata. Immediatamente il pacemaker artificiale prese il controllo del battito dell’animale.

I pacemaker artificiali in uso all’epoca erano esterni all’organismo del paziente. Si trattava di apparecchi piuttosto voluminosi che stimolavano il cuore attraverso un collegamento fisico (aghi o cateteri) o delle piastre applicate sulla cute. Funzionavano, e ancora oggi sono usati in alcuni casi, ma non potevano essere una soluzione permanente. Sempre nel 1958, in Svezia, il pacemaker era già stato sperimentato in forma impiantabile, ma le batterie di quest’ultimo dispositivo dovevano essere ricaricate spesso per induzione e non potevano durare a lungo (il primo si ruppe in poche ore). Greatbatch, insomma, non stava lavorando per inventare il primo pacemaker, e neppure il primo di tipo impiantabile, bensì per realizzare il primo che fosse pratico e affidabile. Non era ovviamente il solo a lavorarci… e il tempo iniziava a stringere.

Dal laboratorio al paziente

A quei tempi Greatbatch lavorava alla Tabor, un’azienda che si occupava di dispositivi elettronici ma che non era interessata al suo, motivo per cui decise di mettersi totalmente in proprio. Trasformò il fienile della propria casa nel suo nuovo laboratorio e chiese alla moglie Eleanor di fargli da assistente. A distanza di due anni (e dopo aver speso 2.000 dollari di risparmi), la famiglia Greatbatch aveva fabbricato 50 pacemaker alimentati a batteria capaci di durare ben due anni. Grazie al sodalizio con Chardack e Gage, 40 di essi furono testati in animali, consentendo di perfezionare anche la tecnica chirurgica.

Era arrivato il momento della prova del nove: l’impianto negli esseri umani. A partire dal primo intervento, condotto in un paziente di 77 anni, fu subito chiaro che i pacemaker di Greatbatch non solo funzionavano, ma che era finalmente cominciata l’era dei pacemaker impiantabili. I risultati degli esperimenti di Greatbatch furono pubblicati per la prima volta su una rivista scientifica nel 1960. Lo scienziato poté così brevettare l’invenzione e concesse la licenza alla compagnia Medtronic, che fino ad allora aveva fabbricato pacemaker esterni.

Nuove batterie e nuovi traguardi

Questa storia potrebbe finire qui, col successo di Greatbatch, Chardack e Gage, anche detti “il trio del farfallino per la preferenza per il papillon rispetto alla cravatta. Ma Greatbatch era davvero un umile smanettone e non si sedette certo sugli allori, ma anzi continuò a lavorare per migliorare la sua invenzione. Fu proprio lui alla fine degli anni Sessanta a intuire il potenziale delle batterie al litio (sempre non ricaricabili) e a svilupparle in modo da far loro alimentare un pacemaker per oltre un decennio, con enormi vantaggi per i pazienti – oltre che per l’azienda che nel frattempo aveva fondato, la Greatbatch Ltd.

Possiamo forse perdonare i giornali che, alla sua morte, titolarono in modo impreciso che era morto l’inventore del pacemaker. Dopotutto gli strumenti che oggi pulsano silenziosi nel petto di milioni di persone non esisterebbero se lui non avesse aperto la strada. Eppure sarebbe riduttivo pensare a Greatbatch solo come l’inventore del pacemaker. Le sue invenzioni furono centinaia e si interessò ai campi più disparati: dall’epidemia di Aids, caldeggiando metodi di screening efficaci per rendere più sicure le trasfusioni, alla genetica agraria. Cercò perfino di capire come produrre energia senza combustibili fossili. Il giorno del suo settantaduesimo compleanno solcò per 240 chilometri le acque del lago Seneca (New York) con una canoa a energia solare di sua invenzione. Certo, non tutto quello che fece ebbe l’impatto del pacemaker, ma come disse una volta nel corso di un’intervista: “Nove cose su dieci non funzionano, ma la decima ripagherà delle altre nove”.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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