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Depressione perinatale: guardare oltre l’ostacolo

Che cos’è, perché si manifesta, quali le terapie e le ultime dalla ricerca di un problema che coinvolge moltissime donne nel periodo della gravidanza e nel primo anno dopo il parto. E cosa possiamo fare per non lasciarle sole.

 

Sono moltissime le donne, circa una su 7, che durante la gravidanza o nei primi mesi dopo il parto devono convivere con la depressione perinatale, la complicanza grave più frequente della maternità in tutto il mondo. Si tratta di una condizione subdola che, se trascurata, può compromettere in modo drammatico la vita di chi la sperimenta sulla propria pelle, con in più un “effetto domino” sulla salute del bambino e degli altri membri della famiglia. Una faccia della maternità tanto seria quanto negletta per entità di risorse investite in ricerca e servizi sanitari. Basti pensare che più o meno nel 75 per cento dei casi, le donne non ricevono alcuna forma di assistenza o trattamento. Ritrovandosi così sole nella paura, nella confusione e nel silenzio.

Ne parliamo oggi in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale Materna – World Maternal Mental Health Day (#maternalMHmatters e #worldMMHday gli hashtag da seguire sui social), fissata per il primo mercoledì di maggio di ogni anno. La ricorrenza nasce dalla volontà di creare consapevolezza sulla malattia e di innescare cambiamenti sociali in direzione del sostegno alle pazienti e alla rimozione dei pregiudizi e dello stigma. La Giornata Mondiale ci ricorda anche che le conseguenze dei mancati aiuti sono un problema di salute pubblica in cui siamo tutti coinvolti. Essere informati sulla depressione perinatale è importante anche se non si è al centro della storia, anche se chi legge è un uomo o una persona che non ha figli.

Chi vive in prima persona questa condizione potrebbe non rendersene conto, sottovalutarla, nasconderla: si stima che circa 7 donne su 10 tacciano o minimizzino i propri sintomi. Le nuove mamme possono anche essere spaventate o non sapere a chi rivolgersi. Non essendoci un test diagnostico specifico, è importante non trascurare i segnali se temiamo che una persona a noi vicina, che si tratti della nostra compagna o di un’amica, la stia sviluppando. Essere presenti e aiutare le donne ad affidarsi subito a un professionista può fare la differenza.

 

Identikit di una malattia complessa

A caratterizzare questo disturbo dell’umore sono tristezza, ansia e spossatezza debilitanti, senso di vuoto che possono condurre all’angoscia e alla disperazione. I sintomi possono insorgere nei mesi della gravidanza, e in questo caso la depressione è detta prenatale, oppure nelle settimane successive al parto, caso in cui si parla di depressione postparto. Nella maggior parte dei casi la depressione appare tra le 4 e le 8 settimane dall’arrivo del bambino o anche più tardi, fino a un anno circa dal parto.

Non va confusa con il cosiddetto “baby blues”, che è caratterizzato da sintomi lievi e passeggeri, tali da non richiedere alcun trattamento. Al contrario, la depressione perinatale può perdurare nel tempo e avere un impatto a lungo termine. Può determinare un parto pretermine o un basso peso alla nascita quando si presenta nei mesi dell’attesa. Il neonato di una madre con depressione non trattata può sviluppare problemi dell’attaccamento e del neurosviluppo. La tenuta delle relazioni sociali interne ed esterne alla famiglia è messa fortemente alla prova. E, naturalmente, c’è l’impatto sulle donne che si ammalano, i cui sintomi possono essere molto vari e comprendere disturbi del sonno e dell’appetito, difficoltà di concentrazione, mancanza di interesse verso le attività che prima lo accendevano, tendenza all’isolamento e aumentato rischio di suicidio.

 

Alla radice del problema

L’origine non è chiara, ma si ritiene che possa dipendere da diversi fattori. Sembra avere un ruolo una qualche predisposizione genetica. Inoltre sono probabilmente coinvolti i processi fisiologici associati alla gravidanza e alla maternità, che comprendono significative fluttuazioni dei livelli degli ormoni sessuali, dello stress e di quelli tiroidei, che tra le altre cose regolano il tono dell’umore. Va poi considerato il fatto che il periodo della gravidanza e quello dopo il parto comportano notevoli cambiamenti nelle abitudini, nelle relazioni, nel lavoro, e possibili di preoccupazioni economiche e insicurezze, per esempio sulla propria capacità di essere genitore. Anche la mancanza di sonno, tipica del periodo dell’allattamento anche notturno, può contribuire. L’insieme di queste sollecitazioni possono rendere le donne in questo momento della vita più vulnerabili ai disturbi mentali rispetto ad altri momenti della vita.

Tra le novità più interessanti della ricerca c’è la scoperta di un’associazione tra depressione perinatale e la sindrome premestruale e disturbo disforico premestruale. Un gruppo di ricercatori del Karolinska Institutet, in Svezia, ha riscontrato che le donne che soffrono di sindrome o disforia premestruale avrebbero un rischio 5 volte maggiore di andare incontro a depressione perinatale rispetto a quelle che non hanno questo problema. Inoltre, secondo i risultati dello studio, coloro che hanno affrontato la depressione perinatale avrebbero il doppio delle probabilità di sviluppare disturbi premestruali. I due fenomeni, hanno spiegato gli esperti sulla rivista PLOS Medicine lo scorso marzo, sarebbero legati a doppio filo e potrebbero avere meccanismi biologici e cause comuni. Questi risultati, se confermati in ampi studi clinici, potrebbero aiutare gli operatori sanitari e le pazienti ad affrontare i disturbi con maggiore consapevolezza e gestire meglio la malattia.

 

Chi è (più) a rischio

Potenzialmente tutte le donne possono sviluppare disturbi mentali nel periodo perinatale, al di là delle differenze di età, dell’etnia, del reddito, della cultura e del livello di istruzione. Nessuna può considerarsi immune. Alcune sono però più a rischio di altre. Fattori di maggior rischio sono la povertà (più casi si riscontrano nei Paesi e nelle fasce a più basso reddito), essere migranti, essere madri adolescenti, attraversare un forte periodo di stress, aver subito o subire violenze (fisiche, sessuali, verbali), trovarsi in situazioni di emergenza o di conflitto e vivere in un tessuto sociale che non offre un adeguato supporto. Viceversa, la presenza di una rete sociale di aiuto e sostegno ha un ruolo protettivo.

Esempio recente di come fattori ambientali possano incidere sulla suscettibilità è stata la pandemia di Covid-19. Le condizioni create dall’emergenza hanno gravato in modo particolare sulla salute mentale materna e sembrano aver accelerato una tendenza alla crescita di questo disturbo. Uno degli studi più corposi a riguardo, che ha analizzato dati riguardanti l’Inghilterra, ha riscontrato un aumento della prevalenza della depressione perinatale dal 10 per cento circa nel 2014 al 24 per cento circa nel 2020; risultati preliminari di studi analoghi hanno mostrato un andamento simile anche in Italia.

 

Quante donne riguarda

Una misurazione precisa del problema è estremamente complessa e questa è una delle sfide che vanno affrontate. Le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità dicono che quasi una donna su 5 può sperimentare un problema di salute mentale nel periodo prima e dopo il parto. Nel mondo occidentale i casi oscillano tra il 10 e il 15 per cento circa, mentre sono tendenzialmente più comuni nei Paesi a basso e medio reddito, dove i problemi di salute mentale materna possono essere anche due volte più frequenti. Il tasso più alto è quello riscontrato in Africa meridionale.

 

Come è possibile affrontare la depressione perinatale

La depressione perinatale si può curare. I tempi di recupero dipendono dalla gravità dei sintomi e sono diversi da persona a persona. Come per la diagnosi, che avviene da parte di medici e psicologi, anche per le opzioni terapeutiche è necessario affidarsi a professionisti. Le linee guida indicano come trattamento primario la psicoterapia, eventualmente in combinazione a farmaci antidepressivi. I professionisti, come spesso accade per altre malattie mentali, possono anche suggerire opportune modifiche dello stile di vita.

La scarsità di studi clinici che coinvolgano le donne in stato di gravidanza e nel periodo immediatamente successivo al parto hanno rappresentato e rappresentano ancora un limite notevole per la ricerca di cure farmacologiche. I medicinali prescritti in Italia sono quelli più impiegati in generale per la depressione grave. Alcuni di questi sembrano agire influendo sui livelli cerebrali di serotonina e hanno il vantaggio di poter essere assunti per via orale. Non hanno però un effetto immediato: la finestra di latenza va dalle 4 alle 8 settimane. Inoltre, occorre proseguire le cure per diversi mesi.

Nel 2019, negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato il brexanolone, il primo farmaco specificamente indicato per la depressione postparto. In questo caso i sintomi possono migliorare più velocemente, ma la somministrazione avviene per endovena e poiché richiede il monitoraggio continuo degli effetti sedativi è anche necessario il ricovero ospedaliero. Più di recente, ad agosto 2023, sempre gli Stati Uniti hanno dato il via libera allo zuranolone: per la prima volta una pillola specifica per il trattamento della depressione postpartum. Da assumere ogni sera per 14 giorni, inizia a fare effetto sui sintomi già dopo 3 giorni. Se e quando arriverà in Italia dipende dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA). L’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) stabilirà, in caso, se il farmaco potrà essere rimborsato dal servizio sanitario nazionale.

 

L’idea digitale

Per il trattamento della depressione perinatale in futuro potremmo disporre anche di terapie digitali, tra cui per esempio un’app, la cui sperimentazione clinica è tra quelle che più potrebbero segnare la medicina del 2024 secondo il parere di alcuni esperti, riportato su Nature Medicine. Il software è progettato per permettere un supporto tra pari affinché, all’occorrenza, anche personale non qualificato possa condurre un intervento di terapia cognitiva. Con l’app si prova a rispondere alle esigenze soprattutto dei Paesi a basso e medio reddito, dove mancano professionisti della salute mentale e dove il problema dell’accessibilità e del divario terapeutico sono più accentuati.

La prossima sperimentazione clinica, condotta da scienziati dell’Università di Liverpool, confronterà l’app con la versione tradizionale della terapia (cioè quella in presenza raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità) in termini di efficacia e di rapporto tra coste e benefici presso alcune comunità rurali del Pakistan. Se si rivelerà “fedele all’originale”, la versione digitale dell’intervento potrebbe permettere a donne che abitano in Paesi in via di sviluppo di fornire, dopo una formazione minima, un servizio di supporto ad altre donne della stessa comunità.

 

Alice Pace
Giornalista scientifica freelance specializzata in salute e tecnologia, anche grazie a una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche e un dottorato in nanotecnologie applicate alla medicina. Si è formata grazie a un master in giornalismo scientifico presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste e una borsa di studio presso la Harvard Medical School di Boston. Su Instagram e su Twitter è @helixpis.
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