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Si può diventare dipendenti dal cibo?

È una domanda che da anni stimola il dibattito e le ricerche della comunità scientifica. Ottenere una risposta affidabile a questa domanda è però molto difficile. Perché? E quanto ne sappiamo finora?

 

A volte capita di sentire che alcuni cibi sarebbero “una droga”, soprattutto quelli più dolci e grassi. Insomma, tendenzialmente quelli che fanno meno bene alla salute. Ma il cibo può dare davvero dipendenza? Molti ricercatori hanno cercato di rispondere a questa domanda, soprattutto negli ultimi 15 anni. Uno dei motivi principali di questo interesse è l’aumento dei casi di obesità: alcuni medici e ricercatori hanno suggerito che gli alimenti più ricchi di grassi e zuccheri potrebbero stimolare le abbuffate e favorire così il sovrappeso. Inoltre, secondo queste ipotesi potrebbero favorire lo sviluppo dei disturbi del comportamento alimentare, ossia di problemi del rapporto con il cibo che causano problemi di salute psicofisica e sociale. Sono però molti i limiti dell’ipotesi che gli alimenti possano causare dipendenza.

 

Il cibo si fa amare

Nutrirsi è fondamentale per la sopravvivenza di pressoché tutte le specie: se ne ricavano energia e molecole fondamentali per il funzionamento degli organismi, come quelle che regolano processi biologici o quelle che fungono da “mattoncini” per costruire cellule, ormoni e altre componenti del corpo. Ma in natura il cibo non è sempre disponibile, anzi. È per questo motivo che, secondo numerosi studiosi dell’evoluzione, gran parte degli animali, esseri umani inclusi, trova particolarmente gradevoli cibi ricchi di energia come quelli ricchi di zuccheri e grassi. Si tratta infatti di alimenti che potrebbero essere stati cruciali per sopravvivere in periodi di carestia e altre difficoltà, per cui la selezione naturale avrebbe favorito gli individui più capaci di trovare e “apprezzare” questi alimenti.

Biologicamente, perché ci piace mangiare? Probabilmente, per lo stesso motivo per cui ci piace fare sesso o ascoltare la musica: sono azioni che stimolano il cosiddetto “centro del piacere”, un insieme di circuiti cerebrali che inducono la produzione di molecole come endorfine e dopamina, capaci di provocare il rilassamento e l’appagamento che ci motivano a ripetere esperienze gradevoli e gratificanti. La stimolazione avviene tramite il legame tra alcune specifiche sostanze e specifici recettori, posti sulla superficie di numerose cellule nervose. Se però le sostanze sono assunte dall’esterno o prodotte internamente più volte, in modo continuativo, per il cervello non c’è più una novità da segnalare. Di conseguenza i recettori sulle cellule diminuiscono in numero e densità. Tale diminuzione provoca la cosiddetta assuefazione, alla base di quasi tutte le dipendenze: quantità maggiori di sostanze sono necessarie per ottenere il medesimo effetto piacevole. In questo modo si sviluppano dipendenze per nicotina, alcolici, alcuni farmaci, sostanze stupefacenti, il sesso, il gioco d’azzardo e così via.

Secondo alcuni ricercatori l’assunzione frequente di alcuni alimenti provocherebbe delle disfunzioni simili a livello sia dei recettori coinvolti, sia del “centro del piacere”. Mangiare spesso cibi molto saporiti potrebbe portare a cercare di continuo alimenti di questo tipo e allo stesso tempo verrebbe meno lo stimolo della sazietà. I comportamenti di ricerca del cibo diventerebbero incontrollabili, anche quando si è consapevoli delle conseguenze negative di tali azioni. Nell’insieme il quadro sembra ricordare le caratteristiche tipiche della classica dipendenza.

 

Ma il cibo crea davvero dipendenza?

Il primo a introdurre il concetto medico-scientifico di dipendenza da cibo (in inglese “food addiction”) è stato il medico statunitense Theron Randolph, nel 1956. A suo parere, alcune persone assumevano alimenti come caffè, mais, latte e uova con una frequenza e in dosi tali da ricordare quello che avviene con la dipendenza da sostanze stupefacenti. Oggi i ricercatori che sostengono la validità dell’ipotesi della “food addiction” sostengono che ciò possa verificarsi con alimenti processati, ricchi di grassi o zuccheri, oppure con quelli che esercitano effetti sul sistema nervoso centrale. Non è però sempre chiaro quali ingredienti, soprattutto degli alimenti processati e particolarmente ricchi di nutrienti, possano portare a una vera e propria dipendenza. Anche per queste ragioni i dati che sostengono la validità dell’ipotesi della dipendenza da cibo sono per ora limitati e la comunità scientifica è divisa in merito (anche per le notevoli pressioni di molte industrie alimentari).

Innanzitutto, non ci sono prove sufficienti per stabilire che a livello cerebrale ci siano cambiamenti rilevanti, in specifici recettori, dovuti all’assunzione di determinati cibi e nutrienti. Piuttosto sembrerebbe che la semplice azione di mangiare possa attivare di per sé il “circuito della ricompensa”, senza necessariamente alterare la densità e la quantità di specifici recettori, come avviene per le dipendenze come le conosciamo finora.

D’altra parte non occorre avere una dipendenza per mangiare troppo e troppo spesso. Può essere sufficiente vivere in ambienti in cui un’alimentazione poco sana è un’abitudine diffusa e i cibi ultraprocessati sono ampiamente disponibili (e magari più economici di quelli più salutari). Una situazione ormai molto comune non solo nei Paesi ad alto reddito come il nostro. Merendine e altri cibi pronti da consumare e poco sani sono ormai molto noti e diffusi in molte parti del mondo. Le campagne pubblicitarie sono peraltro dirette sempre più spesso ai bambini piccoli, che più di altri dovrebbero evitare gli alimenti meno salutari ed evitare di assumere abitudini malsane a vita.

È interessante paragonare cosa avviene quando la persona cerca di superare le dipendenze clinicamente riconosciute o una cosiddetta dipendenza da cibo. I pazienti sottoposti a trattamenti per superare i disturbi da abuso di alcol, nicotina ed eroina spesso ricadono entro l’anno; per quelli che riescono a superare questa soglia, diviene via via meno probabile ricominciare a utilizzare la sostanza. Chi invece soffre di una possibile dipendenza da cibo, ed è molto sovrappeso o obeso, spesso riesce a seguire un’alimentazione sana e a ridurre le quantità per i primi 6 mesi, perdendo peso, per poi riprenderlo gradualmente. È comune che chi segue diete restrittive cada in circoli viziosi in cui alterna periodi di dieta a periodi più sregolati. Una spiegazione per la ripresa di ciò che si è perso potrebbe essere metabolico ed evolutivo: venendo da millenni di fame e carestie, l’organismo sembra percepire ogni perdita di massa come un rischio esistenziale da riportare al più presto allo stato precedente. Perciò il metabolismo di chi ha perduto molti chili è una macchina che si attiva per fare in modo che aumenti l’appetito e che ogni grammo non vada di nuovo perso. Per evitare di riprendere peso, in alcuni casi sembra utile associare alla dieta una terapia cognitivo-comportamentale.

Nell’insieme, tutto questo ci dice che i disturbi del comportamento alimentare, oltre a essere molto complessi, presentano importanti differenze rispetto alle dipendenze da singole sostanze o da altri tipi di abitudini.

 

“Food addiction” e disturbi del comportamento alimentare: una relazione che non convince

I disturbi del comportamento alimentare sono dovuti a diversi fattori di rischio nutrizionali, sociali e psicologici, che spesso non riguardano il solo rapporto con il cibo. Innanzitutto c’è una forte componente psicologica legata alla regolazione delle emozioni. Per esempio, nel disturbo da alimentazione incontrollata (in inglese “binge eating”) le persone mangiano grandi quantità di cibo, in genere in abbuffate episodiche che sembrerebbero ridurre lo stress e inibire le emozioni negative. Il cibo, quindi, rappresenterebbe una fonte di serenità, una “valvola di sfogo”. Non a caso anche episodi particolarmente stressanti o traumatici favoriscono questi comportamenti.

Un altro elemento importante dei disturbi del comportamento alimentare riguarda la percezione di sé, del proprio peso o della forma del proprio corpo, che soprattutto in chi soffre di anoressia o bulimia nervose è alterata rispetto alla realtà. Sono infatti molto importanti la valutazione della propria capacità di autocontrollo e del proprio fisico: in questi casi, anche piccole trasgressioni possono portare a momenti di forti stress, ansia, paura o disagio. A loro volta questi stati emotivi possono condurre a episodi di abbuffate o a comportamenti compensativi, come un’intensissima attività fisica o il digiuno.

 

Dati incerti

Secondo i risultati di una metanalisi del 2021, in cui alcuni ricercatori hanno analizzato 272 articoli di ricerca sul tema, la dipendenza da cibo colpirebbe circa il 20 per cento delle persone nel mondo. Altre stime hanno ridimensionato la percentuale, portandola all’1 per cento circa. A mostrare maggiormente questo disturbo sarebbero le persone obese (con un’incidenza del 16-30 per cento circa) e quelle con un disturbo alimentare (40-60 per cento circa). Ma quanto sono affidabili questi dati?

A oggi lo strumento più utilizzato per diagnosticare la dipendenza da cibo è la Yale Food Addiction Scale (YFAS), un questionario che include 25 domande. Obiettivo del questionario è valutare aspetti quali l’autocontrollo, il desiderio di cibi grassi e dolci e la qualità della vita della persona. Più di recente sono state sviluppate versioni più “avanzate”, quali la Yale Food Addiction Scale 2.0 (YFAS 2.0) e la modified YFAS 2.0 (mYFAS 2.0). Tutte, però, hanno un importante limite: si tratta di questionari di autovalutazione, la cui affidabilità è limitata quanto lo sono i ricordi e la consapevolezza delle persone che rispondono. Per esempio, i risultati di questi studi mostrano che la “food addiction” sarebbe molto diffusa tra le persone con disturbi del comportamento alimentare, colpendo fino a 1 persona su 2. Potrebbe però trattarsi di falsi positivi. Per esempio, le persone con anoressia nervosa, a causa del loro disturbo, potrebbero riportare di mangiare troppo anche se in realtà mangiano pochissimo.

Un altro limite riguarda il campione considerato in ciascuno di questi studi. Molti sono troppo piccoli per raggiungere una significatività statistica. Inoltre, non sono rappresentativi della popolazione generale poiché nella maggior parte dei casi includono soprattutto donne, mentre i dati relativi a bambini e anziani sono scarsi.

 

Perché parlare di dipendenza da cibo potrebbe essere dannoso

C’è però una ragione ancora più importante per fare attenzione a parlare di “food addiction”: la terapia delle dipendenze è molto diversa da quella che risulta essere valida per i disturbi del comportamento alimentare. In molti casi l’approccio alle dipendenze, semplificando molto, consiste nel conoscere, accettare e adattarsi al problema cercando di contenere e limitare i rischi maggiori. La ragione è che è spesso considerata una condizione cronica da cui è molto difficile guarire e che per questo va affrontata con cambiamenti di abitudini e possibilmente con farmaci specifici. A oggi non esistono prove sufficienti per stabilire che approcci analoghi siano efficaci contro l’obesità e i disturbi del comportamento alimentare, anche se alcuni recenti farmaci contro il diabete potrebbero andare in questa direzione. Accanto agli interventi medici, potrebbe essere d’aiuto la psicoterapia cognitivo-comportamentale, che dà alla persona strumenti per affrontare anche i problemi psicosociali associati ai disturbi.

In ogni caso, è importante che enti e governi attuino campagne di prevenzione per favorire un’alimentazione sana, l’attività fisica e altre abitudini che aiutino a ridurre il rischio di sovrappeso, obesità e disturbi dei comportamenti alimentari.

 

Jolanda Serena Pisano
Dopo una laurea triennale in scienze biologiche e la laurea magistrale in Evoluzione del comportamento animale e dell'uomo presso l'Università degli studi di Torino, ha conseguito il master in comunicazione della scienza MaCSIS dell'Università degli studi di Milano-Bicocca. Si occupa di comunicazione della scienza dal 2019, principalmente come redattrice di contenuti per siti rivolti a pubblici vari e per eventi rivolti ai professionisti della salute. Nel 2023 è diventata Caporedattrice di BioPills, associazione senza scopo di lucro di divulgazione scientifica. Per AIRC, in qualità di Scientific Communication and Dissemination Specialist, redige e revisiona testi, è responsabile editoriale del sito WonderWhy.it e cura la comunicazione di progetti di ricerca europei.
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