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L’ardua sfida di ricostruire la storia dell’umanità in Africa usando DNA antico

La vasta e antica diversità genetica che caratterizza gli abitanti dell’Africa subsahariana è oscurata dalle recenti trasformazioni demografiche. Attraverso lo studio del DNA è stato possibile ricostruire almeno in piccola parte l’evoluzione delle popolazioni che hanno abitato queste aree fin dal tardo Pleistocene.

Ancora oggi il continente africano, culla dell’umanità, ospita la più vasta diversità genetica della specie, maggiore che in qualsiasi altra area del pianeta. Tuttavia, il DNA umano antico, rilevato in reperti risalenti al tardo Pleistocene, mostra caratteristiche non più riscontrabili nelle popolazioni contemporanee delle stesse regioni. La discrepanza apre numerosi interrogativi sull’evoluzione delle popolazioni umane in Africa in epoche relativamente recenti.

Una nuova indagine approfondita ha evidenziato che l’area orientale e centromeridionale del continente è quella che più delle altre ancora rappresenta un prezioso serbatoio di varietà genetica. I risultati si trovano in un articolo pubblicato sulla rivista Nature a febbraio 2022, sull’evoluzione degli esseri umani nell’Africa subsahariana. Le conclusioni della ricerca offrono più domande che risposte, ma inducono a ritenere che le popolazioni umane abbiano iniziato a regionalizzarsi poco più di 10.000 anni fa.

Il DNA antico quale risorsa per l’analisi genomica delle popolazioni umane estinte

L’analisi del materiale genetico è in grado di fornire una serie di informazioni sulle caratteristiche di una persona. In medicina tali analisi sono utilizzate, tra le altre cose, per identificare particolari predisposizioni ad alcune patologie. Negli studi paleoantropologici il DNA può essere invece studiato per identificare caratteri specifici di una certa popolazione antica. Nel tempo il DNA umano ha subìto mutazioni che sono andate di pari passo con gli adattamenti della specie a variate condizioni ambientali. Per comprendere in che modo il materiale genetico sia cambiato nel corso dei millenni, si può studiare il cosiddetto DNA antico (in inglese ancient DNA o aDNA). Si tratta di versioni antiche del genoma, isolate e ricostruite a partire da campioni di reperti biologici.

Più si va indietro nel tempo e più è complicato trovare nell’ambiente campioni biologici puri, che non siano né degradati né contaminati. Per questo, spesso i paleoantropologi preferiscono studiare resti mummificati o ben conservati in ambienti molto freddi, ma non sempre questo è possibile. Poiché i resti umani hanno un grande interesse antropologico e archeologico, le ricerche si sono di recente orientate su campioni disponibili in maggior numero estraendo l’aDNA dalle due fonti più comuni, cioè le ossa e i denti, che sono le parti del corpo più resistenti al tempo.

Tracce dal passato

Nell’articolo pubblicato su Nature, gli autori prendono in considerazione una precisa era geologica, il Pleistocene. Questa era va da 2,58 milioni fino a poco più di 11.500 anni fa, e precede l’attuale Olocene.

Anche se la distanza temporale può sembrare relativamente breve, ricostruire le caratteristiche genetiche degli abitanti dell’Africa di tale era è alquanto complicato, visto che i cambiamenti demografici degli ultimi 5.000 anni hanno di fatto oscurato e reso pressoché incomprensibile tutto quello che è accaduto prima. Da questo punto di vista il DNA antico sembra essere fra gli unici reperti possibili per ricostruire con maggiore precisione le trasformazioni demografiche che hanno portato alla sostituzione di Homo neanderthalensis da parte di Homo sapiens nell’Africa subsahariana del tardo Pleistocene.

Il primo passo per gli scienziati è stato identificare resti scheletrici adatti al campionamento e non contaminati dagli eventi successivi. Sono stati così ricavati con successo dati sull’aDNA dell’intero genoma, a partire da sei elementi scheletrici: cinque rocche petrose (ossa situate nel cranio) e una falange. Per tutte le altre ossa e i denti, invece, non è stato possibile estrarre DNA idoneo. Le parti utilizzate riguardavano reperti raccolti in Etiopia, Kenya, Tanzania, Malawi e Camerun.

Il materiale genetico raccolto e analizzato presentava molte lacune dovute al degrado occorso nei millenni trascorsi. Alcuni di questi problemi sono stati superati utilizzando preparazioni particolari, mirate a compensare i danni biologici. Si è per esempio usato l’uracile-DNA glicosilasi (UDG), un enzima implicato nella riparazione del DNA. Per ciascun reperto analizzato è stato anche determinato il sesso e sono state ricercate parentele tra reperti, identificando corrispondenze nella proporzione degli alleli.

Le caratteristiche genetiche delle popolazioni dell’africa subsahariana

Nell’articolo pubblicato su Nature ricorre il termine “ancestrale” che rende bene il senso del lavoro di ricerca svolto. La parola, riconducibile al mondo degli antenati, allude anche a qualcosa di difficile determinazione. Nel corso dei 60.000 anni su cui si è voluto indagare (da 80.000 a 20.000 anni fa), le popolazioni si sono spostate in modo significativo: lo testimoniano le corrispondenze tra individui rinvenuti a molte migliaia di chilometri di distanza.

Per cercare di interpretare correttamente i dati disponibili, spiegano gli scienziati, è necessario ricorrere a metodi in grado di considerare tutti i fattori in gioco, di identificare correlazioni e indicare possibili variazioni occorse nel tempo. Gli strumenti bio-informatici utilizzati stanno, però, funzionando bene solo per aree circoscritte, portando invece a risultati in parte contraddittori se applicati ad aree più estese. Ciò che si è ricavato, combinando i dati più recenti con quelli ottenuti in precedenza da qualche altra decina di genomi antichi, è soprattutto un lungo elenco di domande. Resta per esempio da chiarire come mai i tre gruppi odierni (i Ju Hoansi dell’Africa meridionale, i Mbuti dell’Africa centrale e i Dinka dell’Africa nordorientale), che sono stati presi come riferimento per ricostruire le migrazioni del passato, siano talvolta collocati geograficamente in zone molto distanti dalle aree in cui oggi prevalgono dal punto di vista numerico. Come se ci fosse stato un rimescolamento importante molto recente, più di quanto si credeva.

L’evoluzione che ha portato le popolazioni di cacciatori-raccoglitori a trasformarsi in comunità di pastori e agricoltori è senza dubbio avvenuta ed è confermata dai reperti raccolti e studiati. Tuttavia, una parte delle tracce capaci di spiegare la storia profonda che ha dato origine ai tre genomi prevalenti nel continente africano è come se fosse stata cancellata. Ed è su questo che gli sforzi di ricerca continueranno a concentrarsi.

Gianluca Dotti
Giornalista scientifico freelance e divulgatore, si occupa di ricerca, salute e tecnologia. Classe 1988, dopo la laurea magistrale in Fisica della materia all’università di Modena e Reggio Emilia ottiene due master in comunicazione della scienza, alla Sissa di Trieste e a Ferrara. Libero professionista dal 2014 e giornalista pubblicista dal 2015, ha tra le collaborazioni Wired Italia, Radio24, StartupItalia, Festival della Comunicazione, Business Insider Italia, Forbes Italia, OggiScienza e Youris. Su Twitter è @undotti, su Instagram @dotti.it.
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