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Perché il parto è doloroso?

Il cosiddetto dilemma ostetrico è un’apparente contraddizione evolutiva che può portarci a riflettere sul ruolo del dolore nella storia e nella cultura della specie umana.

 

In gran parte degli esseri viventi la percezione del dolore è profondamente legata all’istinto di sopravvivenza. Gli stimoli corporei dolorosi sono una sorta di linguaggio con cui il cervello riconosce segnali di malattia o di pericolo e dà il via a reazioni di difesa dell’integrità. Si tratta di un collaudato meccanismo evolutivo, la cui conoscenza si è sviluppata a partire dall’Ottocento, di pari passo con lo sviluppo dell’evoluzionismo e della fisiologia come scienza sperimentale. Se il dolore ha funzioni almeno in parte positive, è lecito domandarsi perché, allora, mettere al mondo un bambino comporti una sofferenza tra le più intense e temute. Per quale motivo, insomma, negli esseri umani il parto è così doloroso, anche se non è legato a una malattia bensì alla riproduzione, una funzione essenziale per la specie? Forse c’è qualche funzione “utile” per la nostra specie?

Non si tratta di domande banali, tanto che la comunità scientifica ha attribuito al tema un nome: dilemma ostetrico. Decenni di teorie e di ricerche non hanno ancora sopito il dibattito, con cui si è cercato di individuare ipotesi sufficientemente plausibili, in grado di soddisfare la maggior parte degli studiosi.

  

Parto e dolore: nel cuore del dilemma

Facciamo un passo indietro. Negli esseri umani il parto è un’esperienza complicata ed estremamente faticosa, oltre che dolorosa. Anche per questo, fin dall’antichità le donne che partoriscono sono quasi sempre state aiutate da persone esperte in questo tipo di assistenza, per la sicurezza loro e del nascituro. Questo non accade nei parti di altri mammiferi: per esempio tra i primati non umani, spesso le madri partoriscono tranquillamente da sole e con minori difficoltà. Il perché di queste differenze è oggetto di studio da decenni.

A coniare l’espressione “dilemma ostetrico” è stato l’antropologo statunitense Sherwood Larned Washburn negli anni Sessanta, nel corso di alcuni studi in cui ha paragonato lo sviluppo evolutivo della pelvi, la gravidanza e il parto negli ominidi e nei primati non umani. La testa dei neonati umani è piuttosto voluminosa rispetto a quella dei primati non umani, e questa differenza di dimensioni rende difficile il passaggio attraverso lo stretto canale e non rettilineo del parto. Per attraversarlo, i nostri cuccioli devono affrontare una rotazione, a differenza di quanto accade per altri mammiferi. Quali sono le ragioni di queste difficoltà?

 

Alla ricerca di un compromesso

L’arduo “gioco d’incastri” tra la testa e il corpo del nascituro e il canale del parto complica parecchio il momento del parto, che anche per questo è uno dei passaggi più pericolosi della vita di una donna e di un bambino. Secondo l’ipotesi del “dilemma ostetrico”, il problema sarebbe in parte dovuto alla postura verticale assunta, nel corso dell’evoluzione, dagli esseri umani. Secondo gli studiosi, sarebbe stato proprio il passaggio al bipedismo a richiedere ossa maggiormente in grado di offrire un sostegno adeguato al corpo, comportando però un restringimento del bacino negli esseri umani. Una delle conseguenze è stato un aumentato rischio di complicazioni per mamme e neonati.

Dall’altro lato, nel corso dell’evoluzione sono anche aumentate le dimensioni della scatola cranica dei piccoli di Homo sapiens, in parallelo con le cresciute capacità cognitive della specie. Tali dimensioni non potevano però eccedere le limitate possibilità di dilatazione del canale del parto. Anche per questo motivo gli esseri umani nascono molto immaturi, con un cervello che deve svilupparsi ancora a lungo dopo la nascita e perciò necessitano di tanto accudimento.

Tenendo conto di questi fattori, la modalità del parto nella nostra specie sembra essere un compromesso della selezione naturale. I maggiori vantaggi evolutivi, offerti dalla deambulazione eretta e bipede e dalla crescita della scatola cranica, sono stati contemperati dai relativamente minori svantaggi di un parto complicato e doloroso e di una lunga fase di immaturità dei piccoli. Il risultato è stato: fermare la gravidanza a nove mesi, partorire cuccioli inermi con un cervello che cresce per due terzi dopo la nascita, una caratteristica solo nostra, e un parto molto pericoloso e doloroso, spiega il filosofo ed esperto di teoria dell’evoluzione Telmo Pievani nel saggio Il Male Detto della giornalista scientifica Roberta Fulci (Codice edizioni, 2023), che in un capitolo affronta proprio il tema del dilemma ostetrico.

 

Di costi, benefici… e di un cervello speciale

Il dolore del parto potrebbe dunque essere una delle conseguenze della nostra cosiddetta altricialità: la caratteristica dei cuccioli di alcune specie di essere particolarmente indifesi e non ancora completamente sviluppati quando vengono al mondo e nel primo periodo di vita. Una specificità che ha un costo piuttosto alto anche per altri aspetti. Per esempio, ai nostri bambini occorrono onerose cure parentali per un tempo estremamente lungo, mentre i neonati di molte altre specie, come moltissimi uccelli o gli scimpanzé, diventano quasi subito autosufficienti. Un altro adattamento della specie che si potrebbe essere affermato in parallelo con questi cambiamenti è la formazione di gruppi sociali, che tra le altre cose, avrebbero aiutato a difendere i piccoli immaturi dai predatori e da altre minacce.

Ma quali vantaggi evolutivi ne avremmo ricavato? Una plausibile conseguenza potrebbe essere stata la neuroplasticità, ossia la capacità dei neuroni, soprattutto nel corso del lungo sviluppo cerebrale, di sviluppare moltissime connessioni e di farne importanti selezioni. Dalla nascita in poi, ogni bambino entra infatti in contatto con il proprio ambiente e con gli individui che gli stanno attorno, imparando via via a conoscerli. Questi apprendimenti si imprimono, letteralmente, nelle connessioni che si formano via via tra le cellule nervose e che permettono lo sviluppo di determinate abilità e comportamenti. Nonostante la maturazione complessiva sia piuttosto lunga, l’apprendimento di singoli comportamenti, attraverso l’educazione, il gioco e l’imitazione, è decisamente veloce grazie alle nostre abilità cognitive. (Su WonderWhy, la storia di Donald Kellogg ci ha mostrato quanto gli esseri umani siano abili ad imitare.)L’ipotesi è che i vantaggi della plasticità neuronale e dell’evoluzione culturale abbiano superato i costi di avere dei cuccioli inermi così a lungo nel gruppo”, commenta ancora Pievani.

 

Altri punti di vista

Non sono queste le uniche ipotesi accreditate, anzi: sono molte le posizioni critiche così come i punti di vista alternativi o complementari rispetto al dilemma ostetrico. Alcuni scienziati, per esempio, hanno messo in discussione l’ipotesi che un bacino più stretto sia davvero vantaggioso per la deambulazione eretta, con tanto di indagini sull’energetica e la biomeccanica della locomozione umana. Altri hanno avanzato ipotesi sul possibile ruolo del dolore del parto: tra questi, c’è chi sostiene che esso esiste affinché la donna durante il travaglio chieda aiuto ad altri, aumentando grazie all’assistenza le probabilità di sopravvivenza propria e del bambino.

Un’ipotesi interessante è quella cosiddetta metabolica, formulata dalla scienziata Holly Dunsworth e colleghi. Secondo questa teoria, il fatto di esserci evoluti fino ad avere un cervello molto voluminoso e complesso avrebbe determinato un progressivo aumento della richiesta di energia, durante la gravidanza, da parte del nascituro: una notevole quantità di risorse metaboliche che ogni donna gravida deve mettere a disposizione. Dunque, un parto che avviene quando i piccoli sono ancora tanto immaturi sarebbe il massimo compromesso possibile, rispetto al già enorme investimento metabolico da parte della mamma nel corso della gravidanza.

 

A ognuna il suo (dolore)

Al di là delle ipotesi evolutive, sul dolore del parto ci si interroga anche sul perché esso possa presentarsi in modo così variabile, in termini di intensità, da donna a donna. Una delle possibilità è che ci siano in gioco l’anatomia e la genetica. Lo mostrano, per esempio, i risultati di uno studio pubblicati sulla rivista Cell Reports nel 2020. Nella ricerca sono state coinvolte alcune partorienti che non avevano chiesto l’anestesia epidurale nel corso del parto perché provavano relativamente poco dolore. Alcune di esse si sono rivelate portatrici di una rara variante genetica che sembra determinare una soglia del dolore molto superiore alla media.

In particolare, il gene sarebbe coinvolto nella regolazione dell’eccitabilità dei cosiddetti nocicettori, i recettori del dolore, a livello uterino. Così si ridurrebbe la capacità delle cellule nervose di trasmettere segnali dolorosi al cervello, come se si trattasse di un’epidurale naturale, hanno osservato gli scienziati dell’Università di Cambridge autori dell’articolo. Queste informazioni, che ci aiutano a comprendere più da vicino i meccanismi del parto, potrebbero anche essere utili per lo sviluppo di nuovi farmaci antidolorifici.

 

Alice Pace
Giornalista scientifica freelance specializzata in salute e tecnologia, anche grazie a una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche e un dottorato in nanotecnologie applicate alla medicina. Si è formata grazie a un master in giornalismo scientifico presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste e una borsa di studio presso la Harvard Medical School di Boston. Su Instagram e su Twitter è @helixpis.
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