L’analisi del DNA dei materiali vegetali, che si trovano nei nidi conservati nei musei di storia naturale, può fare di questi resti macchine del tempo utili a investigare le condizioni degli ecosistemi del passato. Ecco i risultati di uno studio di questo tipo, da poco pubblicati sulla rivista PlosOne.
Lo studio degli uccelli, delle loro caratteristiche morfologiche, dell’ambiente nel quale vivono e della loro storia evolutiva è da secoli un interessantissimo settore di ricerca e riflessione. Non dimentichiamo, per esempio, che fu proprio lo studio dei fringuelli delle Galápagos, e del processo che aveva determinato la loro differenziazione in specie, a offrire a Darwin, nel corso del suo viaggio sul brigantino Beagle, un fondamentale contributo all’elaborazione della teoria dell’evoluzione. Lo stesso Darwin si arrovellò molto sul cosiddetto dilemma della coda del pavone, un carattere in apparenza così poco idoneo alla sopravvivenza e che espone all’attacco dei predatori: Darwin si chiese a lungo come questa appariscente e ingombrante propaggine potesse essersi affermata nel corso del processo evolutivo. Anche Alfred Russel Wallace, che elaborò indipendentemente da Darwin la sua teoria evolutiva, si occupò di volatili, dedicando all’uccello del paradiso interessanti osservazioni, che costituiscono un importante contributo all’elaborazione degli studi sul corteggiamento e la selezione sessuale.
Una parte del fascino scientifico degli uccelli è anche dovuta al fatto che queste creature sono ciò che rimane della linea evolutiva dei dinosauri, diverse specie dei quali erano ricoperte, come è noto da tempo, di piume.
Il nido che non ti aspetti
La curiosità degli scienziati si è soffermata anche sui nidi degli uccelli, che non sono, come molti erroneamente ritengono, le “case” in cui le diverse specie dimorano, bensì strutture dedicate alla funzione riproduttiva. I nidi infatti vengono allestiti in prossimità del periodo della riproduzione, allo scopo di permettere alle uova di schiudersi nelle giuste condizioni di temperatura e al riparo da intemperie e altri pericoli, tra cui i predatori. Solo molto raramente vengono adoperati dagli uccelli al di fuori di questo periodo.
I nidi possono essere considerati esempi di architettura presenti nell’ambiente naturale, o più propriamente bio-architetture (da non confondersi con la disciplina della bioarchitettura, che ha invece lo scopo di progettare strutture edilizie che si inseriscano negli ecosistemi senza turbarne le dinamiche e nel rispetto del principio di sostenibilità). Alcuni nidi particolarmente scenografici, come per esempio quelli edificati dall’uccello giardiniere, sono strumenti che i maschi di questa specie utilizzano per attirare le femmine. E i rami degli alberi sono solo una tra le diverse localizzazioni possibili: possiamo trovare nidi anche in mezzo a cespugli e arbusti, nei pressi delle nostre abitazioni, sotto tetti e grondaie, a terra, nelle cavità delle rocce e in svariati altri luoghi.
L’esame di un nido, insieme a quello delle uova, può quindi essere utile agli scienziati per comprendere diversi aspetti del comportamento della specie che lo ha costruito e per completare il quadro delle sue interazioni con l’ecosistema di cui fa parte. Nel presente… ma non solo.
I nidi come capsule del tempo
Un gruppo di scienziati al lavoro tra la California e l’Oklahoma, in uno studio i cui risultati sono stati pubblicati lo scorso ottobre su PlosOne, ha pensato di studiare i nidi dei pennuti, custoditi in molte ricche collezioni dei musei di storia naturale, quali capsule del tempo botaniche.
I ricercatori si sono concentrati su questo ricco patrimonio finora poco utilizzato negli studi scientifici, che comprende quasi 60.000 campioni che coprono gli ultimi 250 anni. Nello specifico, hanno condotto l’analisi genetica dei materiali adoperati per costruire due nidi recenti (del 2003 e del 2018) e due nidi datati invece 1915, costruiti da uccelli delle specie del passero cantore (Melospiza melodia) e del passero delle praterie (Passerculus sandwichensis). L’analisi ha messo in luce la presenza di alcune piante, alghe e anche di un ciliato, che sono stati identificati attraverso la banca dati GenBank. Le nuove tecniche di analisi genetica e i progressi nella biologia molecolare hanno permesso di rendere questi studi più agevoli, soprattutto per quanto riguarda i campioni storici, che spesso presentano il DNA in forma degradata e incompleta. Indagini di questo tipo possono dunque permettere di identificare frammenti di piante per i quali l’esame visivo non basta, senza per questo dover distruggere i campioni di nido.
Le informazioni che è possibile ricavare con questo metodo sono molteplici e rendono i nidi conservati delle vere e proprie capsule del tempo, in quanto permettono di ottenere istantanee relative all’ambiente e al tempo in cui i nidi sono stati trovati, alla struttura degli ecosistemi in un determinato momento storico e ai cambiamenti che si sono verificati nelle diverse epoche. Tutto ciò aiuta a farsi un’idea, per quanto parziale, di habitat naturali che non esistono più.
È anche possibile, sulla base dei dati emersi dall’analisi dei nidi, pensare di contribuire alla ricostruzione di questi ambienti, reintroducendo specie autoctone non più presenti i cui resti sono stati identificati nei campioni analizzati. I nidi contengono inoltre spesso materiali artificiali, per esempio plastica, che una volta studiati potrebbero permettere ai ricercatori di ricostruire almeno in parte le condizioni di inquinamento di determinati luoghi nei diversi periodi.