Gli iceberg sono enormi riserve di acqua dolce che potrebbero essere usati per risolvere le crisi idriche. Per farlo bisognerebbe trainarli dove ne abbiamo bisogno, con le giuste tecnologie e un po’ di spirito di avventura. Ma è davvero una buona idea?
Non è un caso che la Terra sia chiamata Pianeta Blu: circa il 70 per cento della sua superficie è ricoperto da acqua, la maggior parte della quale è contenuta negli oceani. Per sopravvivere però gli organismi che vivono sulla sua superficie, esseri umani inclusi, hanno bisogno di acqua dolce, una risorsa molto più rara. Secondo lo United States Geological Survey, un’agenzia scientifica del Governo degli Stati Uniti, l’acqua dolce è solo il 2,5 per cento di tutta l’acqua globale, ma appena lo 0,3 per cento si trova in forma liquida, in laghi e fiumi, pronta per essere utilizzata.
Nei Paesi in cui l’acqua dolce non è disponibile a sufficienza, si parla di stress idrico. Il fenomeno potrebbe peggiorare nei prossimi anni e presentarsi in molte altre parti del mondo dove oggi non è ancora un problema, a causa dell’uso sconsiderato di questa preziosa risorsa e dei cambiamenti climatici. Per far fronte alla situazione si è affermata negli anni un’idea controversa: traslocare gli iceberg dai Poli verso i paesi più aridi, e utilizzarli come riserva di acqua.
Perché gli iceberg
È proprio negli iceberg che si trova la maggior parte dell’acqua dolce: le calotte polari e i ghiacciai contengono il 68 per cento circa dell’acqua dolce planetaria, mentre le acque sotterranee raccolgono un altro 30 per cento, che però non è sempre accessibile. Un altro vantaggio è che quest’acqua è molto pulita. Gli iceberg, infatti, sono letteralmente montagne di ghiaccio che si staccano dai ghiacciai quando questi arrivano al mare. I ghiacciai a loro volta sono alimentati dalle nevicate e contengono contaminanti, come polveri, batteri e virus, in concentrazioni inferiori rispetto ad altre fonti. L’acqua ottenuta sarebbe quindi adatta per molti usi agricoli o industriali, ma poterebbe anche diventare potabile in maniera relativamente semplice. Diverse aziende, del resto, vendono già (a carissimo prezzo) acqua imbottigliata proveniente da iceberg.
Uno dei principali limiti all’utilizzo dell’acqua degli iceberg è la necessità di spostarli per distanze molto lunghe. Spostare gli iceberg in realtà non è una pratica nuova. Da molti decenni, per esempio, nell’Artico vengono trasportati con i rimorchiatori per impedire che le montagne di ghiaccio alla deriva si scontrino contro le piattaforme petrolifere, che non possono evitarle come può fare invece una nave. Per sfruttare la loro acqua dolce però il viaggio si dovrebbe allungare di migliaia di chilometri per raggiungere i Paesi di destinazione.
Tra il dire e il fare
Forse è proprio per questo che oggi il numero di iceberg trasportati dai poli per alleviare lo stress idrico in Africa, Medio Oriente o Australia è pari a zero. Tuttavia alcuni stanno cercando di realizzare questa impresa. Uno dei progetti più chiacchierati sui media è probabilmente quello del capitano Nick Sloane, l’esperto che ha guidato il recupero della nave da crociera Costa Concordia, naufragata nel 2012 al largo dell’isola del Giglio. Sloane vorrebbe trasportare gli iceberg dell’Antartide a Città del Capo, la capitale del Sudafrica, che dal 2015 al 2018 ha sofferto una gravissima crisi idrica. Secondo alcuni scienziati, la sua idea potrebbe non essere fantascienza. Almeno in linea teorica.
Alan Condron, esperto in modelli climatici presso la Woods Hole Oceanographic Institution, in Massachusetts, negli Stati Uniti, ha cercato proprio di verificare quanto sia realizzabile questo progetto. Creando al computer una simulazione dello scioglimento e della deriva degli iceberg, è arrivato alla conclusione che sia possibile spostare un iceberg dall’Antartide a Città del Capo o negli Emirati Arabi Uniti.
Se l’iceberg catturato è abbastanza grande, durante il viaggio si fonderà solo in parte, permettendo di sfruttare il resto. Se si riuscisse a proteggerlo dall’erosione delle onde, ricoprendo la sua superficie con materiale isolante e applicando alla linea di galleggiamento una specie di “gonna” di geotessuto, allora si potrebbero trasportare persino iceberg più fragili e di dimensioni più piccole. Per sopravvivere al viaggio a Città del Capo un iceberg dovrebbe essere lungo almeno 300 metri e spesso 200, mentre uno diretto agli Emirati Arabi dovrebbe essere di ben 2 chilometri di lunghezza e di 600 metri di spessore. Il trasporto sarebbe lento, non più di un nodo nautico (0,5 metri al secondo), anche per ridurre l’erosione del ghiaccio da parte delle onde. Considerando la portata dei rimorchiatori esistenti, ne servirebbero da uno a venti a seconda della grandezza dell’iceberg.
Con queste promesse Condron ritiene che sarebbe possibile trasportare un iceberg lungo 700 m e spesso 250 m a Città del Capo, sufficiente a dissetare per un anno ognuno dei 4,7 milioni di abitanti. Sussistono però ancora molti problemi, come il raccoglimento dell’acqua dell’iceberg: al momento nessuno ha le idee chiare su come gestire questo aspetto cruciale, una volta giunto a destinazione. Si potrebbe fondere in un bacino di carenaggio, una struttura per la riparazione o manutenzione delle navi, oppure frammentarlo. In ogni caso bisognerebbe agire in fretta, perché nelle acque di Città del Capo un iceberg come quello descritto si scioglierebbe completamente in appena 44 giorni.
A volte ritornano
Sono almeno due secoli che il sogno di traslocare gli iceberg guadagna terreno periodicamente tra gli esperti e il pubblico. L’ultima volta è stato negli anni Settanta del secolo scorso, quando la RAND Corporation aveva dedicato, proprio a questo argomento, un lungo rapporto richiesto dalla National Science Foundation americana. Nel 1975 il trasloco degli iceberg filtrò anche nella cultura di massa, quando Topolino pubblicò la storia “Zio Paperone e gli iceberg volanti”, in cui il magnate competeva col rivale Rockerduck per accaparrarsi gli iceberg dell’Antartide.
Nonostante la diffusione dell’idea, le sfide tecniche e logistiche da affrontare rimangono enormi e la maggior parte degli esperti è piuttosto scettica. Infatti è vero che i risultati delle simulazioni suggeriscono che spostare un iceberg per migliaia di chilometri non sia impossibile, ma ciò che è fattibile in teoria non è necessariamente pratico. Oltre alla realizzabilità tecnica, bisogna considerare la sostenibilità economica del progetto. Secondo Grant Bigg, professore in scienza di sistemi terrestri all’Università di Sheffield, in Gran Bretagna, un singolo rimorchiatore costa circa 75.000 dollari al giorno, cifra che va moltiplicata per la durata del viaggio di alcuni mesi. A questo bisogna anche aggiungere le spese per progettare, produrre e applicare il colossale cappotto isolante e per estrarre l’acqua all’arrivo. Insomma, non sembra molto conveniente.
Oltre alle difficoltà tecniche e ai costi, ci sono molti altri problemi. Nel viaggio l’iceberg perderebbe parte della sua massa e miliardi di litri di acqua gelida finirebbero nelle acque fuori dal circolo polare. A oggi nessuno sa quali sarebbero gli effetti sull’ecosistema marino. E poi, di chi sono gli iceberg dell’Antartide? Le fonti del diritto internazionale al momento non regolamentano uno sfruttamento di questo genere, e forse non è saggio lasciare mano libera a imprenditori temerari. Inoltre molti si chiedono se gli iceberg siano davvero una soluzione per sopperire allo stress idrico. Potrebbero fornire una parte dell’acqua necessaria in un Paese in crisi, ma è ancora difficile considerarla una soluzione a lungo termine.
Garantire a tutti l’accesso all’acqua è uno degli obiettivi dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite. Piuttosto di utilizzare gli iceberg, questa promuove una gestione integrata delle risorse idriche, considerando i diversi utilizzi per le persone e gli ecosistemi. Già implementato da diversi Paesi, questo approccio coordinato permette di pianificare uno sfruttamento sostenibile, limitando la competizione tra i diversi impieghi dell’acqua. Al momento però la gestione delle acque è spesso frammentata, e questo produce sprechi, inquinamento e fa aumentare i costi. È probabile che il trasporto degli iceberg si realizzi solo sulle pagine di Topolino e che la cooperazione internazionale possa invece contribuire davvero a contrastare lo stress idrico. Una soluzione più pratica, anche se meno avventurosa.