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5 cose da sapere sul virus Marburg

A febbraio 2023, per la prima volta è stato registrato un caso di virus Marburg in Guinea Equatoriale. Estremamente letale e di facile trasmissione, al momento non esistono terapie specifiche e vaccini per prevenirlo e curarlo. Possiamo però capire come riconoscerlo ed evitare il contagio.

Dalla fine degli anni Sessanta il virus Marburg continua a ripresentarsi con regolarità quasi ogni anno. Il 13 febbraio 2023 si è però registrata per la prima volta la presenza di questo patogeno in Guinea Equatoriale. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha accertato il decesso nel Paese di nove persone, mentre altri 34 casi sono sotto osservazione.

Il virus Marburg ha caratteristiche biologiche molto simili a quelle dell’Ebola, e suscita molta preoccupazione per la sua letalità e facilità di trasmissione. Finora il patogeno è stato trovato in particolar modo nelle grotte e miniere dell’Uganda, nei pipistrelli della frutta, e anche per questo la maggior parte delle infezioni sono avvenute in zone limitrofe o in seguito al trasporto e contatto con animali dell’Africa centrale.

1. Carta d’identità

Appartenente alla famiglia dei filovirus, il virus Marburg è caratterizzato da una forma, appunto, simile a un filo, stretta e allungata. Per riprodursi ha bisogno di essere ospitato dal pipistrello della frutta, il Rousettus aegyptiacus, che vive in Africa. Essendo un virus zoonotico, può però fare salti di specie e trasmettersi tra animali diversi, per esempio dai pipistrelli agli esseri umani. È un virus a RNA: a differenza del DNA, questo tipo di materiale genetico è soggetto a una maggiore instabilità e a una frequenza più alta di mutazioni. Duplicandosi di cellula in cellula e da ospite in ospite, aumentano le probabilità che avvengano cambiamenti nel suo patrimonio genetico. Si possono così formare ceppi diversi, magari simili nelle proprietà di trasmissione e nei sintomi della malattia, ma con maggiori capacità di infezione. Le tante varianti virali rendono più difficoltoso lo sviluppo di terapie e vaccini specifici.

Dal 1967 a oggi sono stati registrati almeno 17 focolai di virus Marburg, spesso ristretti a meno di una decina di persone, forse anche a causa della elevata e rapida mortalità provocata dalla malattia: le percentuali dei decessi vanno dal 23 al 90 per cento. Dopo un periodo di incubazione che varia dai tre giorni alle tre settimane, la malattia da virus Marburg può manifestarsi con una febbre emorragica (come avviene per l’Ebola), nausea, vomito, dolore al petto e addominale e diarrea. Riconoscere questi primi segnali è spesso difficile, poiché possono essere scambiati per malaria o tifo. Con l’avanzare del tempo i sintomi peggiorano, con gravi perdite di peso, emorragie, uno stato di delirio, shock e il collasso graduale degli organi interni.

La trasmissione del patogeno avviene per contatto diretto con liquidi corporei, come sangue o mucose di persone o animali infetti (soprattutto pipistrelli, ma anche primati), e con oggetti contaminati, mentre non si sa ancora con certezza se possa avvenire per trasmissione sessuale.

2. Le origini del virus

Il virus Marburg è stato descritto per la prima volta nel 1967, quando scoppiarono tre focolai in tre diversi laboratori di ricerca: a Belgrado, nell’allora Jugoslavia, e in Germania, nelle città di Francoforte e Marburgo (dove si registrò il maggior numero di contagi e dalla quale il patogeno ha preso il nome). Anche se distanti, l’origine dei contagi era una sola e si riconduceva all’importazione dall’Uganda di diversi esemplari di scimmie cercopiteco, utilizzati per lo sviluppo e la produzione del vaccino della poliomielite. Tecnici e ricercatori non sapevano che gli animali fossero infetti da un virus ancora sconosciuto, ma non passò molto tempo prima che se ne accorgessero.

Poco dopo l’arrivo dei cercopitechi, alcuni dipendenti entrarono per caso in contatto con sangue o altri liquidi biologici infetti e iniziarono a mostrare segni di malessere. Il virus Marburg era sconosciuto, e questo probabilmente portò sia i ricercatori sia i loro familiari a ignorare i primi sintomi. Tuttavia, grazie alle misure di contenimento e isolamento dei laboratori, i focolai rimasero abbastanza circoscritti, con un totale di 31 casi e 7 decessi. Negli anni seguenti, episodi simili di contaminazione sono rimasti rari e isolati e la maggioranza dei focolai successivi originò in luoghi ben distanti dai laboratori.

3. Evitare grotte, miniere e pipistrelli

Dal 1998 al 2000 in Congo sono morte 138 su 154 persone che sono state infettate dal virus Marburg. Il contagio probabilmente partì dai lavoratori di una miniera dove si estraeva oro a Durba, nella parte nord-orientale del Paese, per poi diffondersi a Watsa, un villaggio vicino. Qualche anno dopo, un altro focolaio molto più piccolo scoppiò in Uganda, questa volta tra i lavoratori in una miniera di piombo, per poi arrivare fino in Occidente.

Nel 2008 due turiste, una olandese e una americana, visitarono l’Uganda accompagnate dai mariti. Al ritorno iniziarono a mostrare febbre, emicrania, eritemi, ed emorragie. Il collasso graduale degli organi fu fatale per la prima donna, mentre la seconda per fortuna sopravvisse. Sebbene non fossero state compagne di viaggio, gli itinerari delle due donne erano stati accomunati da una visita guidata nella nota grotta dei pitoni. Una testimonianza riportata dal giornalista David Quammen nel suo celebre libro Spillover (Adelphi, 2014), dice così, nella traduzione di Luigi Civalleri: “[…] un paesaggio lunare, coperto di guano simile a una bizzarra glassa di dolci. In alto c’era un tappeto di pipistrelli, grossi, a migliaia, che si agitavano e squittivano all’arrivo degli estranei, in qualche caso staccandosi dalla volta per fare un voletto nervoso prima di posarsi di nuovo”. Dalle sue pagine emerge come i turisti non sapessero quanto fosse pericoloso addentrarsi in una grotta piena di pipistrelli. Soprattutto non sapevano di stare entrando in un covo di virus e agenti patogeni con una probabilità altissima di infezione, se non si indossa l’attrezzatura adatta per proteggersi e se si appoggiano le mani nude sulle rocce. Non è un caso che molti dei focolai del virus Marburg siano collegati a miniere e grotte, dove comunità di pipistrelli ed esseri umani possono facilmente entrare in contatto.

4. Perché i pipistrelli?

I pipistrelli sono gli animali serbatoio del virus Marburg, del Nipah virus, dell’Ebola e di molti altri, perché i loro comportamenti e caratteristiche fisiche favoriscono la diffusione e la sopravvivenza virale. Rifugiandosi in colonie di centinaia di migliaia di esemplari in ambienti chiusi e ristretti, come grotte e miniere, facilitano infatti lo scambio di fluidi corporei tra di loro e quindi di agenti virali e patogeni. I pipistrelli, inoltre, vivono a lungo – anche più di dieci anni –, in comunità molto grandi e si spostano con facilità. Questo permette a molti virus non solo di avere un continuo ricambio di animali da infettare, ma anche di potersi replicare in numerosi individui, avere maggiori possibilità di mutare a livello genetico e di conseguenza più probabilità di moltiplicarsi e prosperare.

Inoltre la crescente deforestazione e invasione dell’habitat dei pipistrelli ha favorito l’abbattimento delle barriere naturali e la riduzione delle distanze. In molte parti del mondo questi animali e gli esseri umani convivono, con un aumento esponenziale delle probabilità di salti di specie degli agenti virali.

5. Terapia e vaccini, a che punto siamo

Al momento per il trattamento e la prevenzione dei sintomi del virus Marburg non esistono cure antivirali specifiche e nemmeno vaccini. Quando scoppia un nuovo focolaio, il metodo più efficace rimane cercare di bloccare la trasmissione virale, usando sistemi di protezione individuale, diagnosticando la positività e isolando i sospetti e i casi accertati. Per i pazienti sono disponibili soltanto terapie di supporto, basate sul mantenimento dei livelli di idratazione ed elettroliti, le trasfusioni ematiche e l’ossigenoterapia.

Tutte queste misure sono state messe in atto per arginare il recente focolaio in Guinea Equatoriale. L’OMS ha allestito capannoni per la diagnosi e la cura della malattia e ha fornito personale esperto e kit per la protezione individuale e la cura. Grazie alle celeri segnalazioni delle autorità del posto è stato possibile mobilitarsi subito e limitare il più possibile i danni. Questa situazione forse potrebbe permettere di verificare l’efficacia di alcuni vaccini, come quello del Sabin Vaccine Institute di Washington DC, attualmente in sperimentazione clinica con risultati promettenti; oppure di testare una terapia a base di remdesivir, un antivirale che è stato utilizzato anche per la cura dell’Ebola e del Covid-19, e specifici anticorpi monoclonali finora provati su primati non-umani. Tuttavia le dosi scarse dei vaccini e il poco tempo a disposizione lasciano intendere che la soluzione non sia così vicina. Secondo il parere dell’OMS, i rischi rimangono alti per chi vive in Guinea Equatoriale, ma bassi nel resto del globo.

Camilla Fiz
Comunicatrice della scienza, ha terminato il master in comunicazione della scienza alla SISSA di Trieste, dopo una formazione in biotecnologie molecolari all’Università degli studi di Torino e in pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi della stessa città. Oggi si occupa della realizzazione e revisione di testi sui temi di salute e ricerca biomedica per Fondazione AIRC.
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