Le terapie a base di cellule staminali per alcuni tumori del sangue, come il trapianto di midollo osseo, sono emerse anche dalle “macerie” dell’era atomica cominciata col bombardamento di Hiroshima e Nagasaki.
Il 6 agosto 1945 gli Stati Uniti sganciarono una bomba atomica all’uranio sulla città di Hiroshima, in Giappone. Il 9 agosto colpirono Nagasaki con un’altra bomba atomica, ma al plutonio. Queste armi di distruzione di massa non erano mai state usate prima in un conflitto bellico, e molti dei sopravvissuti svilupparono sintomi fino ad allora raramente osservati. Le radiazioni ionizzanti prodotte nell’esplosione, soprattutto raggi gamma e raggi X, avevano attraversato i loro corpi e li avevano danneggiati, a volte in maniera evidente, per esempio con ustioni più o meno estese, ma spesso anche in modi più insidiosi.
All’epoca si sapeva già che i raggi X, scoperti una cinquantina d’anni prima, erano pericolosi ad alte dosi. Ma gli effetti delle radiazioni ionizzanti sugli organismi, e in particolare sugli esseri umani, erano ancora in gran parte sconosciuti. Con lo spettro di una guerra nucleare all’orizzonte, gli effetti sulla salute dei due bombardamenti atomici erano sotto la lente di ingrandimento degli scienziati, e in tutto il mondo gli esperimenti per verificare i danni causati dalle radiazioni si moltiplicarono. Da quel filone di ricerca sono emerse molte scoperte. Forse la più importante è stata l’identificazione delle cellule staminali ematopoietiche, da cui anni negli anni a venire sono state sviluppate applicazioni per combattere alcuni tipi di cancro.
Una bomba che uccide le cellule del sangue
Non si sa di preciso quante siano state le vittime di Hiroshima e Nagasaki, ma le stime vanno da un minimo di 110.000 a un massimo di 220.000 individui. Relativamente poche persone morirono immediatamente, per effetto della potenza distruttiva delle esplosioni. Molte persero la vita nei giorni e nelle settimane successive per gli effetti della dose di radiazioni ricevuta, mentre altre ancora riuscirono a sopravvivere per anni e decenni dopo i bombardamenti, ma svilupparono tutte sintomi caratteristici, più o meno gravi a seconda della dose cui erano state esposte.
Tra questi vi era la difficoltà nella rimarginazione delle ferite, tanto che un banale graffio sanguinava per settimane e mesi. Gli esami del sangue dei pazienti indicavano una generale riduzione di tutte le cellule del sangue, dai globuli rossi che trasportano l’ossigeno ai globuli bianchi e alle piastrine, che rispettivamente trasportano l’ossigeno, combattono le infezioni e aiutano a rimarginare le ferite. Se il paziente sopravviveva era perché nel tempo, in qualche modo, il corpo riprendeva a produrre questi elementi in numero sufficiente, ma i dettagli di questo processo, chiamato emopoiesi, all’epoca non erano ancora chiari.
Dalla bomba alle staminali
Negli anni successivi gli scienziati scoprirono che i topi irradiati con la minima dose letale di raggi X morivano in breve tempo perché, come era successo ai cittadini di Hiroshima e Nagasaki, le radiazioni danneggiano i tessuti emopoietici come il midollo osseo e la milza. Se invece si schermavano questi organi, i topi irradiati con la stessa dose sopravvivevano e la frazione di tessuto protetto era sufficiente a ripristinare nel tempo la normale emopoiesi.
Altri esperimenti dimostrarono poi che trasferendo cellule dagli organi emopoietici (come appunto milza e midollo) da un topo sano a un topo irradiato senza schermatura, l’animale riprendeva la normale emopoiesi e sopravviveva.
I tessuti emopoietici sono quindi molto sensibili alle radiazioni, ma alcune cellule sane, anche se provenienti da un altro individuo, possono essere in grado di riparare i danni subiti. All’inizio gli scienziati ipotizzarono l’esistenza di speciali molecole o fattori in grado di stimolare il recupero degli organi emopoietici danneggiati. Negli anni Sessanta i ricercatori canadesi James Till e Ernst McCulloch dimostrarono nei topi che l’emopoiesi dipendeva soprattutto da cellule indifferenziate del midollo osseo che potevano specializzarsi nei diversi tipi di cellule del sangue. In altre parole, avevano scoperto le cellule staminali, la cui esistenza fino a quel momento era stata solo ipotizzata.
Le terapie cellulari contro i tumori del sangue
Si pensò subito che anche negli esseri umani un trapianto di queste cellule potesse guarire un sistema emopoietico compromesso dalle radiazioni (per esempio emesse in un altro incidente nucleare), oppure da malattie come i tumori del sangue. Questo perché, come dimostrarono Till e McCulloch, le cellule staminali si autorinnovano (cioè possono proliferare mantenendosi indifferenziate) e si specializzano (cioè possono generare cellule differenziate). Nel tempo, una popolazione di staminali emopoietiche sane può moltiplicarsi e ripristinare la normale produzione di cellule del sangue in un tessuto danneggiato.
I primi trapianti di midollo osseo, il principale tessuto emopoietico, precedono di poco la scoperta delle cellule staminali, e da allora la tecnica è progredita molto. Per esempio, oggi le staminali emopoietiche possono essere estratte anche direttamente dal sangue del donatore (quindi non sempre serve un prelievo dal midollo osseo), e ci sono procedure per ridurre molto il rischio di rigetto.
Oggi il trapianto di staminali ematopoietiche è una delle possibili terapie non solo contro leucemie, linfomi e mielomi, ma anche in caso di malattie autoimmuni o congenite come l’anemia falciforme. Inoltre, in procedure sperimentali, gli scienziati stanno provando a “riprogrammare” queste cellule in modo che il sistema immunitario possa riconoscere e aggredire alcuni tipi di tumori.