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Le cavie umane del progetto Manhattan

Nell’ambito del progetto Manhattan, che ha portato allo sviluppo della prima bomba atomica, sono stati condotti studi su esseri umani inconsapevoli per valutare gli effetti di sostanze radioattive. Ne era al corrente anche Robert J. Oppenheimer, il fisico statunitense a capo dei laboratori di Los Alamos che ospitavano il progetto.

Il 6 e il 9 agosto del 1945 le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki furono attaccate dagli Stati Uniti, con le prime armi nucleari utilizzate nella storia in un conflitto bellico. Pochi giorni dopo il Giappone si arrendeva e la Seconda Guerra Mondiale terminava. Per molti l’uso di queste armi di distruzione di massa è stato un crimine di guerra, altri invece hanno ritenuto che Harry Truman, allora Presidente degli Stati Uniti, non avesse altra scelta. Le considerazioni etiche non si fermano tuttavia alle responsabilità politiche e militari, ma coinvolgono anche le ricerche scientifiche.

Centinaia tra i più brillanti scienziati dell’epoca nel mondo hanno partecipato al progetto Manhattan, che ha reso possibile lo sviluppo di quelle armi. Uno di loro, il fisico Joseph Rotblat (poi insignito del premio Nobel per la pace), abbandonò il progetto quando fu chiaro che i nazisti non sarebbero riusciti a sviluppare armi analoghe. Altri invece proseguirono anche dopo la fine della guerra, sviluppando armi sempre più potenti.

C’è però un aspetto forse meno noto del progetto Manhattan che ha sottolineato l’importanza delle considerazioni etiche nella scienza. Dal 1945 al 1947, nell’ambito del progetto, sono state condotte alcune sperimentazioni su persone del tutto inconsapevoli del proprio coinvolgimento e dei rischi annessi, per studiare gli effetti delle sostanze radioattive sulla salute e sull’organismo.

Una nota a piè di pagina

New Mexico, 1987. La giornalista Eileen Welsome aveva da poco cominciato a lavorare per l’Albuquerque Tribune, un giornale locale, quando lesse che nella base dell’aeronautica militare a Kirtland, a pochi chilometri di distanza, alcuni rifiuti da smaltire contenevano carcasse radioattive di animali. Dopo qualche telefonata seppe che si trattava dei resti di esperimenti condotti dall’Air Force Special Weapons Laboratory di Kirtland. Se ne avesse voluto sapere di più, sarebbe potuta andare a consultare la documentazione al riguardo. Quando si trovò di fronte a una pila di documenti polverosi, la giornalista aveva ormai abbandonato l’idea di trovare una storia adatta al suo giornale, ma decise lo stesso di sfogliare le carte. Una nota a piè di pagina attirò la sua attenzione, come ha scritto in seguito nel libro dal titolo The Plutonium Files (Dell Books, 2000): “Un minuto prima stavo leggendo di cani a cui erano state iniettate grandi quantità di plutonio e che poi avevano sviluppato un avvelenamento da radiazioni e tumori. All’improvviso ho trovato un riferimento a un esperimento su esseri umani”.

Scoprì così che tra il 1945 e il 1947, 18 persone erano state usate come “cavie” umane per condurre esperimenti col plutonio nell’ambito del progetto Manhattan. Era tutto documentato dalla scia di studi e relazioni che questi esperimenti si erano lasciati dietro, compreso un rapporto del Congresso uscito nel 1986. Il grande pubblico era però ancora all’oscuro della vicenda avvenuta quarant’anni prima. Soprattutto, erano del tutto sconosciute le identità delle persone coinvolte, che nei documenti erano identificate solo da sigle come CAL-3, HP-12, CHI-1. Da quel momento la giornalista ebbe solo una missione: scoprire chi fossero quelle persone e raccontare tutta la vicenda.

A cosa servivano gli esperimenti

Prima del progetto Manhattan non erano mai state concentrate nello stesso posto così tante sostanze radioattive e persone dedite al loro studio e uso nello sviluppo di armi inedite e molto potenti. All’epoca i rischi delle radiazioni erano noti solo in parte, e si sapeva ancora poco del loro effetto sul corpo umano. In particolare sul plutonio, l’elemento scoperto nel 1941 e usato per la costruzione della bomba sganciata su Nagasaki, queste conoscenze erano totalmente assenti. In natura infatti il plutonio si trova solo in tracce e per gli usi militari deve essere prodotto artificialmente in un reattore a partire dall’uranio. Del plutonio si conoscevano le caratteristiche fisiche eccellenti per gli scopi del progetto, ma i suoi effetti biologici erano ancora sconosciuti. Nel 1942 fu così creata una divisione medica affinché si studiassero in dettaglio i rischi che correvano i lavoratori coinvolti nel progetto e nella sua gestione.

Si iniziò sperimentando su animali di laboratorio l’effetto di queste sostanze e delle radiazioni, e monitorando i locali e il personale esposto a materiali radioattivi, attraverso prelievi di sangue e urine e altri esami medici. Questi esperimenti furono tuttavia considerati insufficienti per stabilire la tolleranza degli esseri umani a queste sostanze. Per esempio non permettevano di verificare le conseguenze dell’inalazione attraverso le polveri. Nel 1944 si decise così di condurre attivamente esperimenti su esseri umani. Robert Oppenheimer, che era d’accordo, aveva ordinato che gli esperimenti venissero condotti lontano dal suo laboratorio a Los Alamos, in New Mexico. Furono pertanto svolti negli ospedali affiliati al progetto Manhattan a Rochester, nello stato di New York, a Oak Ridge in Tennessee, a Chicago in Illinois e a San Francisco in California.

Nel caso del plutonio l’obiettivo era capire come fosse metabolizzato: quanto era assorbito ed escreto dall’organismo e in quanto tempo. Gli esperimenti dovevano essere segreti tanto che la parola “plutonio” non poteva essere neppure nominata. Si decise quindi di avviare gli studi su alcuni pazienti civili, malati terminali, del tutto ignari che il trattamento a cui erano sottoposti non avesse fini terapeutici. Il 10 aprile del 1945 una persona denominata HP-12 ricevette la prima iniezione contenente 4,7 microgrammi di plutonio. Corrispondevano a circa cinque volte la dose massima considerata tollerabile, in base ai risultati degli esperimenti più recenti condotti con gli animali, che però non era detto fossero del tutto trasponibili al corpo umano. Mancava poco all’attacco al Giappone e tutti sapevano che l’era nucleare era appena cominciata. In quel momento quei dati servivano più che mai.

Lo scoop da premio Pulitzer e i suoi effetti

Nel 1993 Eileen Welsome pubblicò una serie di articoli dal titolo The Plutonium Experiment. Solo l’anno prima era riuscita, con un lavoro da detective, ad associare alla sigla CAL-3 il nome del paziente Elmer Allen a cui era stato iniettato il plutonio nel 1947. Dopo aver scovato altri quattro nomi, decise che era finalmente arrivato il momento di denunciare le loro vicende. Così rese noto che, tra questi, non vi erano solo malati terminali. Allen visse ancora a lungo e morì nel 1991, mentre HP-12, cioè Ebb Cade, che era stato ricoverato per un incidente d’auto quando ricevette l’iniezione, era deceduto nel 1953. Tutti erano invece persone vulnerabili e malate, tra cui diversi pazienti oncologici, uomini, donne e persino bambini, che non sapevano (e non seppero mai) di aver preso parte a un simile esperimento.

L’inchiesta, per la quale la giornalista meritò il premio Pulitzer nel 1994, scoperchiò il cosiddetto vaso di Pandora. Grazie a nuovi documenti desecretati è stato poi possibile risalire ai nomi di tutti i pazienti tranne uno. Tuttavia a quel punto, nessuno di loro era ancora in vita. Come si scoprì in seguito gli esperimenti col plutonio erano soltanto la punta dell’iceberg di una serie di test con uranio, polonio e americio, all’interno sempre del progetto Manhattan, che spesso non tenevano minimamente conto dello stato di salute dei pazienti. Per esempio gli esperimenti con l’uranio servivano per definire la dose massima tollerata da reni in salute, quindi prevedevano di somministrare l’elemento fino a quando gli organi non avessero cominciato a danneggiarsi. Il progetto fu chiuso nel 1947, ma il governo statunitense condusse studi simili fino al 1974. In tutto furono circa 4000 le persone coinvolte, di tutte le età, tra cui donne incinte, disabili, carcerati e minoranze. Molti di loro erano poveri: potevano essere intimoriti con facilità, senza che fossero in grado di fare domande o di opporre resistenza.

Il complicato giudizio della bioetica

In seguito alla pubblicazione dell’inchiesta, nel 1994 il Presidente Clinton istituì l’Advisory Committee on Human Radiation Experiments, composto da esperti di bioetica, che l’anno successivo produsse un rapporto di un migliaio di pagine su questi esperimenti. La Commissione aveva riconosciuto che alcuni di questi esperimenti, come quelli col plutonio, erano eticamente inaccettabili anche per l’epoca. Il governo era quindi tenuto a scusarsi e a risarcire le vittime. Tuttavia, secondo la Commissione, la maggior parte degli altri test non era particolarmente rischiosa ed era in linea con le prassi del tempo. Fino a metà degli anni Sessanta, infatti, la professione medica non aveva ancora preso in considerazione il diritto all’autodeterminazione dei pazienti, e i dottori di frequente eseguivano esperimenti senza chiedere il consenso degli interessati se giudicavano il rischio accettabile. Secondo il rapporto, questa prassi era una prassi errata, in uso da parte di tutta la classe medica, che non poteva quindi essere condannata soltanto in merito agli esperimenti su cui la Commissione era stata chiamata a esprimersi.

Questa posizione è stata molto criticata da Eileen Welsome e altri. Il medico David Egilman accusò la Commissione di fuggire dalle proprie responsabilità e di avere trovato degli stratagemmi per assolvere la maggior parte dei medici. Per esempio, l’importanza del consenso informato in medicina era riconosciuta anche prima che esso venisse codificato in una legge. Inoltre già nel 1947 era stato scritto il codice di Norimberga, una serie di principi sulle sperimentazioni su soggetti umani, nata nell’ambito dei processi ai criminali nazisti, che avevano svolto esperimenti con i prigionieri dei campi di concentramento. In questo documento il consenso dei pazienti è al primo posto nell’elenco.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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