Mari e oceani forniscono cibo a circa tre miliardi di persone, ma gli stock ittici continuano a essere sfruttati oltre le loro possibilità di ripopolazione. L’acquacoltura può essere un’opportunità per ovviare al problema, purché si riesca a ridurne gli impatti ambientali.
La quantità di animali marini che peschiamo è ancora di molto superiore a quella che gli stock ittici sono in grado di rinnovare biologicamente. Allo stesso tempo, l’acquacoltura, ossia l’attività di allevamento in acqua, copre quasi la metà dei consumi di prodotti ittici nel mondo. Ciò è dovuto principalmente a un costante aumento della domanda di proteine da animali marini, sia allevati sia pescati in mare aperto, e al fatto che la pesca e la trasformazione dei prodotti ittici rimangono la primaria fonte di sussistenza per molte comunità di Paesi a basso e medio reddito. Si stima che la frazione degli stock ittici pescata entro livelli biologicamente sostenibili sia diminuita dal 90 per cento nel 1974 al 64,6 per cento nel 2019, mentre quelli sfruttati non completamente sembra siano solo il 7,2 per cento a livello globale.
Questi sono solo alcuni dei dati presentati nello “State of world fisheries and aquaculture 2022”, l’ultimo rapporto sul tema pubblicato dalla Food and Agriculture Organization (FAO) alla fine del giugno 2022. Il rapporto offre una fotografia sempre più nitida dello stato della pesca e dell’acquacoltura nel mondo, delle sue ricadute economiche e dei relativi problemi e potenzialità. Il pesce apporta il 17 per cento circa delle proteine animali (dato 2019) – con punte del 23 per cento nei Paesi a reddito medio-basso, arrivando a oltre il 50 per cento in alcune regioni dell’Asia e dell’Africa. Inoltre fornisce il 7 per cento circa di tutte le proteine assunte a livello globale. Per 3,3 miliardi di persone il pesce e gli altri prodotti acquatici forniscono un quinto di tutte le proteine animali assunte mediamente. Gli oceani e le acque interne sono quindi risorse fondamentali per la sicurezza alimentare di intere comunità.
Nel 2020, in seguito alla pandemia di Covid-19, si è registrato un netto calo dei consumi, che fino all’anno precedente avevano segnato tassi di crescita costante. Il consumo globale di alimenti acquatici (“aquatic foods”) era infatti aumentato a un tasso medio annuo del 3 per cento dal 1961 al 2019, quasi il doppio di quello della crescita della popolazione mondiale, con un consumo pro capite annuo che ha raggiunto nel 2019 i 20,5 kg.
I numeri aggiornati e la crescita dell’acquacoltura
Nel 2020 la produzione totale della pesca e dell’acquacoltura ha raggiunto il record storico di 214 milioni di tonnellate (178 di animali acquatici e 36 di alghe). La Cina è il primo produttore mondiale, con una quota del 35 per cento del totale globale.
A far registrare i maggiori tassi di crescita è certamente l’acquacoltura, un settore che non offre una grande diversità biologica, con la carpa erbivora che domina la produzione per quanto riguarda le acque interne e il salmone atlantico per gli allevamenti marini. Se l’Asia è leader nel mercato mondiale, con il 90 per cento della produzione complessiva, l’Africa ha invece registrato un calo nei due principali Paesi produttori – Egitto e Nigeria – del 14,5 per cento circa rispetto al 2019. A eccezione dell’Africa, nel 2020 tutte le regioni hanno registrato una crescita continua dell’acquacoltura, con ai primi posti Cile, Cina e Norvegia.
I problemi e le prospettive
Secondo le stime della FAO, nel 2030 il 90 per cento di tutta la produzione di animali acquatici sarà destinata al consumo umano, con un aumento complessivo del 15 per cento rispetto a oggi. Sarà dunque fondamentale lavorare sulla sostenibilità delle attività di pesca e di allevamento, puntando allo stesso tempo non solo al ripristino degli stock ittici, ma anche alla riqualificazione degli ambienti marini, favorendo la ripresa delle foreste di mangrovie, delle praterie e delle scogliere di fanerogame (come, per esempio, la posidonia), dei bacini idrografici e delle zone umide. A conferma del fatto che le azioni di mitigazione e di riduzione degli impatti della pesca possono avere esiti positivi, gli ultimi dati mostrano un miglioramento delle condizioni biologiche degli stock ittici: nel 2019, per esempio, il 66,7 per cento delle dieci specie più commercializzate, tra cui le acciughe, il merluzzo bianco dell’Alaska, il tonnetto striato e l’aringa dell’Atlantico, è stato pescato entro livelli biologicamente sostenibili. Si tratta di un segnale importante, che premia gli sforzi profusi in quella che si può definire pesca sostenibile, contraddistinta da un equilibrio tra i prelievi e le capacità delle comunità ittiche di rigenerarsi.
Le iniziative in questa direzione possono fare molto, tanto che nel 2021 la IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) ha aggiornato lo stato di rischio per le sette specie di tonno più pescate commercialmente. Per quattro di esse sono stati infatti rilevati segni di miglioramento grazie alla lotta alla pesca illegale e a una gestione sostenibile delle comunità biologiche. Ciò non significa che il problema degli eccessi della pesca sia di facile soluzione, ma che, adottando pratiche precise – tra cui la riduzione delle quote di pescato – è possibile dare il tempo necessario alle popolazioni per riprendersi e rigenerarsi.
La trasformazione blu
È in questo scenario che la FAO spinge per la cosiddetta trasformazione blu, che consiste nel creare “una visione per trasformare in modo sostenibile i sistemi alimentari acquatici, una soluzione riconosciuta per la sicurezza alimentare e nutrizionale e il benessere ambientale e sociale”. Non sarà, tuttavia, una sfida semplice: sappiamo infatti che la pesca ha un impatto elevatissimo sugli ecosistemi, produce inquinamento e incide anche su altre specie che non sono obiettivo di pesca. Secondo alcune stime, solo nel Mediterraneo la percentuale di pesce scartato è pari a circa il 18,6 per cento delle catture, e in alcune attività può arrivare fino al 70 per cento. Non solo: anche l’acquacoltura ha un importante impatto sugli ecosistemi marini, portando a un aumento dei nutrienti e degli antibiotici nelle acque, oltre che dei rifiuti costituiti dal cibo non consumato. In alcuni casi si è notato come le fughe di salmoni dagli allevamenti in Norvegia siano in grado di modificare il ciclo biologico di quelli selvatici, mentre gli allevamenti di gamberetti nel Sud-Est asiatico stanno minando la sopravvivenza delle mangrovie. L’equilibrio tra la sicurezza alimentare, l’accesso al cibo e la sopravvivenza stessa di molte specie marine è così destinato a restare precario.