TORNA ALLE NEWS

Che cos’è la sindrome di Down

A cosa è dovuta questa condizione, come viene identificata e a che punto è la ricerca in merito? Un promemoria in occasione della Giornata mondiale della sindrome di Down.

Il 21 marzo di ogni anno ricorre la World Down Syndrome Day, la Giornata mondiale dedicata alla sindrome di Down, una condizione causata dalla presenza di tre copie del cromosoma 21, anziché due, in tutte le cellule dell’organismo.

In occasione dell’edizione 2022 della ricorrenza gli organizzatori hanno posto la domanda: Cosa significa – davvero –inclusione? Si tratta di uno stimolo a promuovere una piena e concreta inclusione delle persone che convivono con questa condizione nella società.

Le persone con sindrome di Down hanno infatti tutte le “carte in regola” per realizzarsi, sul lavoro così come nella vita privata. Spesso però non trovano le condizioni adatte per mettere a frutto il proprio potenziale, e anzi incontrano piuttosto barriere che ne ostacolano la partecipazione alla vita sociale. Tra le ragioni, vi è spesso una scarsa consapevolezza da parte di molte persone di che cosa si intende per inclusione. Inoltre molti sanno poco o nulla di questa specifica forma di disabilità e di cosa comporti per le persone colpite. Cosa vuol dire, insomma, avere la sindrome di Down? Proviamo a comprenderlo meglio attraverso alcuni punti essenziali.

Dottor Down

Cominciamo con la sua scoperta. La sindrome di Down prende il proprio nome dal medico britannico che per primo la studiò a fondo, fino a identificarne i tratti comuni nelle persone affette. Si chiamava John Langdon Down e fu l’autore, nel 1866, di una pubblicazione scientifica con, a quel tempo, la descrizione più completa della sindrome.

Down aveva incontrato per la prima volta una ragazza con disabilità dello sviluppo all’età di 18 anni. Stava facendo una passeggiata con la sua famiglia in campagna e cercò riparo dalla pioggia in una fattoria nei paraggi. L’incontro con la ragazza lo colpì così tanto da decidere, in quel momento, di voler studiare medicina e fare della cura dei disabili il lavoro della propria vita.

Le cause della sindrome “al microscopio”

Le strutture in cui il materiale genetico si aggrega all’interno delle nostre cellule sono i cromosomi. Il nucleo di ciascuna cellula contiene normalmente 46 cromosomi, suddivisi in 23 coppie. Ciascuna coppia è formata da un cromosoma ereditato dalla madre e da uno ereditato dal padre. Nelle persone con sindrome di Down, il processo di divisione cellulare è avvenuto in modo anomalo e per questo i cromosomi numero 21 sono presenti in tre copie anziché due. La sindrome è detta anche trisomia 21, proprio a indicare lo specifico cromosoma coinvolto, e la terza copia presente, all’origine dei problemi di sviluppo e delle tipiche caratteristiche fisiche delle persone Down.

Perché in alcuni casi si verifichi questa anomalia non è chiaro. Si tratta di una condizione che accompagna da la specie umana, senza differenze tra i sessi e le etnie. Un fattore di rischio nell’avere un figlio con sindrome di Down è l’età materna al momento del concepimento, in particolare il rischio aumenta dai 35 anni in su. La maggioranza dei bambini con sindrome di Down nasce tuttavia da mamme con età inferiore ai 35 anni, poiché le maternità, in numeri assoluti, sono molto più numerose fra le donne più  giovani.

Come si diagnostica

Screening non invasivi possono essere condotti già nei primi mesi di gravidanza per calcolare le probabilità che il feto abbia la sindrome di Down. In particolare è possibile ricavare informazioni sul feto sia attraverso un semplice prelievo del sangue materno, per capire in base ai livelli di precise sostanze se c’è la possibilità che vi sia un’anomalia cromosomica, sia attraverso la cosiddetta translucenza nucale, con cui si può visualizzare e misurare lo spessore di una precisa area della testa del feto, che tende a essere alterata nel caso, appunto, di anomalie.

Per l’accertamento sono poi possibili esami ulteriori, invasivi ma che forniscono informazioni più precise: la villocentesi, o prelievo dei villi coriali, con cui si analizzano i cromosomi fetali attraverso il prelievo di cellule della placenta, e l’amniocentesi, con cui si esamina invece una piccolissima quantità di liquido amniotico dopo averlo aspirato con un ago dall’utero materno.

Al momento della nascita, per diagnosticare la sindrome di Down si osservano le caratteristiche fisiche del neonato, tra cui la forma del capo o il peso e le dimensioni ridotte rispetto alla media, per esempio. Un’ulteriore conferma avviene attraverso un test genetico a partire dal sangue del neonato, che permette di definire in modo inequivocabile la presenza della copia extra di cromosoma 21 nelle cellule.

Come si presenta

Chi ha la sindrome di Down presenta gradi variabili, da lieve a grave, di disabilità intellettiva e fisica. Oltre a caratteristiche uniche e soggettive, alcuni tratti dell’aspetto fisico sono riconosciuti come comuni a tutte le persone con questa sindrome. La statura è generalmente ridotta e lo sviluppo è più lento rispetto alla media; inoltre il tono muscolare è scarso e le articolazioni sono spesso caratterizzate da lassità.

Un’altra caratteristica frequente è il capo più piccolo e dalla forma alterata, per esempio con un’area piatta sul retro. L’angolo interno degli occhi è arrotondato anziché appuntito, gli occhi sono obliqui e rivolti verso l’alto e l’esterno. Naso, orecchie e bocca più piccoli della media sono un’altra caratteristica comune alle persone con sindrome di Down, così come la presenza di piccole macchie bianche nella porzione colorata dell’occhio (le cosiddette macchie di Brushfield).

Le complicanze

Alcune patologie sono più frequenti in chi ha questa anomalia cromosomica. È il caso delle cardiopatie congenite, che riguardano più o meno la metà delle persone con sindrome di Down, e possono essere gravi al punto da richiedere controlli periodici e interventi chirurgici già nella prima infanzia. Sono frequenti anche i disturbi a carico dell’apparato gastrointestinale, con vari gradi di intensità, e i disturbi immunitari, come per esempio un aumentato rischio di sviluppare malattie autoimmuni e una maggiore sensibilità alle infezioni. La sindrome di Down aumenta anche la suscettibilità a determinati tipi di cancro, come alcune forme di leucemia durante l’infanzia. Chi soffre della sindrome ha inoltre una maggiore tendenza a sviluppare obesità rispetto al resto della popolazione, può avere problemi spinali, come per esempio un disallineamento delle vertebre, deficit uditivi e visivi e un aumentato rischio di demenza e di sviluppare con l’età il morbo di Alzheimer.

Per questi motivi è fondamentale che le persone con sindrome di Down seguano abitudini e comportamenti salutari e si sottopongano a controlli puntuali, di modo che i segni e sintomi precoci di complicanze possano essere colti tempestivamente e gli interventi e l’assistenza medica possano essere immediati e personalizzati. La condizione è tuttavia permanente, può essere curata ma non guarita.

I numeri della sindrome

Il numero di persone nate ogni anno con sindrome di Down varia nelle diverse regioni del mondo a seconda delle politiche che riguardano la diagnosi prenatale, dei livelli di assistenza offerti alle persone disabili e alle loro famiglie, e delle leggi sull’aborto. L’incidenza di nati vivi con la sindrome a livello mondiale è di circa uno su mille, mentre la prevalenza varia da 1 su 400 bambini a 1 su 3.000 (dati Orphanet, aggiornati al 2019). In Italia un bambino ogni 1.200 nati ha la sindrome. La stima, piuttosto incerta, è di circa 500 nascite all’anno per un totale di 38.000 persone nel nostro Paese (dati Quotidiano Sanità, aggiornati al 2018).

Grazie soprattutto al miglioramento della possibilità di trattare le complicanze, l’aspettativa di vita media nei Paesi sviluppati è in continuo aumento e oggi supera i 60 anni (negli anni Ottanta era di appena 33).

A che punto è la ricerca

La ricerca sulla sindrome di Down è attiva su molti fronti: si studiano le cause, i metodi per rendere più precisa la diagnosi, i meccanismi patologici, nuovi trattamenti delle comorbidità (che ricordiamo sono a carico di molti organi e sistemi) e la possibilità (che per ora non è niente più di un sogno) di sviluppare una vera e propria cura. Lo si fa, per esempio, con lo studio del problema in animali di laboratorio, studiando gli effetti sia di geni specifici sia di gruppi di geni che possono essere coinvolti nella sindrome. Un fronte molto attivo negli ultimi anni è la ricerca di strategie per migliorare le capacità cognitive dei pazienti, con alcuni trattamenti farmacologici attualmente in sperimentazione clinica.

Alice Pace
Giornalista scientifica freelance specializzata in salute e tecnologia, anche grazie a una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche e un dottorato in nanotecnologie applicate alla medicina. Si è formata grazie a un master in giornalismo scientifico presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste e una borsa di studio presso la Harvard Medical School di Boston. Su Instagram e su Twitter è @helixpis.
share