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I grandi passi avanti della chirurgia spaziale, tra robot e ultrasuoni

La cosiddetta radiologia interventistica, basata sull’utilizzo di ultrasuoni e robot controllabili da remoto, rende possibile alcuni interventi d’emergenza durante le missioni spaziali. Allo stesso tempo si lavora per monitorare e prevenire il peggioramento delle condizioni di salute degli astronauti quando si trovano in condizioni di microgravità.

 

In un momento storico in cui sempre più si progettano e avviano missioni spaziali umane a medie e grandi distanze, la comunità scientifica sta esplorando nuovi approcci per affrontare eventuali emergenze mediche nello spazio. Tra i problemi da affrontare, come gli inevitabili ritardi comunicativi (per esempio, come sappiamo dai contatti con i robot, tra Marte e la Terra possono raggiungere i 45 minuti), c’è la condizione di scarsa gravità. Questa determina dinamiche non sempre controllabili, tra cui per esempio i movimenti anomali dei liquidi corporei. Tuttavia, tra progressi della tecnologia a ultrasuoni, pionieristiche tecniche chirurgiche in microgravità e innovazioni in radiologia, la medicina spaziale inizia ad avere basi solide su cui svilupparsi.

Per esempio, dal 2020 la Società francese di radiologia collabora con il Centro nazionale degli studi spaziali per adattare le soluzioni di imaging alle condizioni extra-orbitali, anche per rendere più sicure le missioni spaziali di lunga durata. L’obiettivo è miniaturizzare i dispositivi, renderli più leggeri e facilmente utilizzabili, automatizzarne i sistemi di gestione e adattarli alle peculiarità dello spazio. Le tecnologie che risulteranno da questi sforzi potrebbero avere benefici anche per i pazienti sulla Terra che si trovano in condizioni sanitarie difficili, per esempio in aree dove sono in corso operazioni militari e devono essere raggiunti da missioni umanitarie.

 

Tecnologie a ultrasuoni e sperimentazioni

Il motivo per cui gli astronauti devono prepararsi ad affrontare rapidamente eventuali imprevisti di salute è che nei viaggi verso la Luna (e forse, in un futuro non troppo lontano, verso Marte e oltre) la distanza dalla Terra sarà tale che non si potrà prevedere un rientro in caso di emergenza sanitaria. A oggi, l’intervento chirurgico così come normalmente lo si intende non è praticabile nello spazio, quindi l’unica tecnica a disposizione per il trattamento dei pazienti è la radiologia. Potrebbe sembrare strano, ma è proprio così.

Le macchine a ultrasuoni rappresentano una tecnologia di imaging disponibile e già utilizzata nella Stazione spaziale internazionale (ISS) a scopo diagnostico. Tuttavia, per le missioni nello spazio profondo, la sfida è riuscire a utilizzare gli ultrasuoni per il trattamento di condizioni come la ritenzione urinaria, i calcoli biliari o il drenaggio di pus da ascessi. Per affrontare questi problemi si stanno sviluppando dispositivi che consentano di praticare la cosiddetta radiologia interventistica, in cui oltre agli ultrasuoni vengono utilizzati drenaggi, sonde e cateteri. Date le condizioni non ci sono al momento molte altre possibilità.

Un esperimento scientifico in quest’ambito è stato condotto per due settimane nelle Alpi svizzere nel contesto del progetto Asclépios III, con l’obiettivo di simulare le condizioni di una missione lunare. Durante l’esperimento, un giovane astronauta è stato addestrato a eseguire un drenaggio guidato da ultrasuoni su un addome sintetico, utilizzando un tablet e un dispositivo portatile appunto a ultrasuoni. Il prossimo passo sarà valutare la fattibilità di questa pratica durante un volo in condizioni di microgravità. I test richiederanno di suddividere la procedura in segmenti ciascuno di 22 secondi. Si stima che i segmenti necessari a completare la procedura saranno una trentina.

 

Il robot chirurgo per astronauti (e non solo)

Un passo in avanti nel campo degli interventi nello spazio arriva anche dalla sperimentazione del robot SpaceMira, sviluppato in collaborazione tra l’Università del Nebraska e l’azienda Virtual Incision, che sembra avere già ottenuto risultati promettenti. Infatti, un gruppo di chirurghi ha condotto per la prima volta un’operazione chirurgica (simulata) a bordo della Stazione spaziale internazionale (ISS), grazie a un robot comandato a distanza.

SpaceMira, lungo poco più di 70 centimetri e di massa inferiore a un chilogrammo, ha una forma che ricorda vagamente quella di un grosso frullatore a immersione. Dotato di due bracci con pinze e forbici, il robot è stato inviato nello spazio il 30 gennaio 2024 attraverso un razzo SpaceX dalla stazione di Cape Canaveral, giungendo sulla Stazione Spaziale due giorni dopo, il primo febbraio. Una settimana più tardi, sei chirurghi hanno condotto la simulazione da una console situata presso la sede della Virtual Incision a Lincoln, nel Nebraska. Durante l’esperimento sono state brillantemente superate le sfide legate all’assenza di gravità nello spazio e al ritardo nei movimenti del robot (una latenza di circa mezzo secondo), ottenendo un risultato più che soddisfacente. Questo test rappresenta un passo avanti non solo per la chirurgia spaziale ma anche per la medicina in generale, suggerendo che la medesima tecnologia possa essere di aiuto anche sulla Terra, soprattutto in comunità con limitato accesso a chirurghi specializzati.

 

Chirurgia nello spazio

Se da un lato la chirurgia extraterrestre risulta essenziale per trattare condizioni di emergenza nello spazio, dall’altro l’innovazione tecnologica e le soluzioni digitali permettono di promuovere più in generale la cosiddetta “healthcare spaziale” o medicina spaziale. In questo senso la missione Ax-3 di Axiom Space, avviata il 18 gennaio 2024, ha segnato un momento significativo. Gli scienziati si sono in particolare concentrati sull’innovazione della telemedicina e sull’introduzione di una tuta spaziale progettata per contrastare la perdita di massa muscolare e scheletrica degli astronauti in condizioni di gravità ridotta.

Grazie all’utilizzo di un tessuto speciale, viene indotta una risposta muscolare e ossea in grado di favorire il mantenimento della forma fisica. Con il dispositivo indossabile, sviluppato da un’impresa italiana, si mira infatti a replicare gli stimoli muscolari dati dalla vita sulla Terra, e a mitigare gli effetti negativi della permanenza nello spazio. Tra i 30 esperimenti pianificati per la missione, si evidenzia anche l’opportunità di approfondire la fisiologia cardiovascolare in microgravità, identificando i principali fattori di rischio per gli astronauti. Potrebbe dunque diventare possibile monitorare in tempo reale i parametri fisiologici, riducendo il rischio di eventi cardiovascolari gravi o di situazioni cliniche che richiedono un intervento chirurgico immediato.

 

Gianluca Dotti
Giornalista scientifico freelance e divulgatore, si occupa di ricerca, salute e tecnologia. Classe 1988, dopo la laurea magistrale in Fisica della materia all’università di Modena e Reggio Emilia ottiene due master in comunicazione della scienza, alla Sissa di Trieste e a Ferrara. Libero professionista dal 2014 e giornalista pubblicista dal 2015, ha tra le collaborazioni Wired Italia, Radio24, StartupItalia, Festival della Comunicazione, Business Insider Italia, Forbes Italia, OggiScienza e Youris. Su Twitter è @undotti, su Instagram @dotti.it.
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