Universalità. Globalità. Gratuità. Sono alcuni dei principi che devono guidare lo sviluppo di sistemi sanitari forti e resilienti, capaci di lavorare per lo sviluppo di una copertura sanitaria universale (e non solo in una singola nazione, bensì in tutti i Paesi del mondo). Una veduta d’insieme sugli obiettivi, e alcuni dati utili a inquadrare la situazione.
Dieci anni fa, il 12 dicembre 2012, le Nazioni Unite approvavano una risoluzione che incoraggiava ogni Paese del mondo a lavorare per garantire una copertura sanitaria universale ai propri abitanti. Nel 2015 l’obiettivo è elencato tra i traguardi della cosiddetta Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Dal 2017, alla copertura sanitaria universale è dedicata una Giornata mondiale, che si celebra appunto il 12 dicembre di ogni anno. Ma che cosa si intende davvero con questo concetto?
Per copertura sanitaria universale si intende che in ogni Paese del mondo sia data la possibilità a chiunque di accedere a terapie di qualità, senza che per questo le persone si trovino in difficoltà finanziarie. Ciò non significa che le cure debbano essere necessariamente gratuite per tutti, né che non possano essere coinvolte strutture di cura private. Verso il raggiungimento dell’obiettivo negli anni si sono registrati progressi a livello mondiale, ma in misura inferiore all’atteso. Inoltre la pandemia di Covid-19 ha ampliato le disuguaglianze anche in campo sanitario e ha reso necessario intensificare gli sforzi.
La lenta evoluzione della copertura sanitaria universale
Molti tra i Paesi più ricchi e alcuni tra quelli in via di sviluppo godono oggi di qualche forma di assistenza sanitaria universale. Questo è possibile solo attraverso l’intervento dei governi e degli Stati che, tramite leggi, regolamenti e la tassazione, amministrano in vari modi il sostegno economico dei servizi sanitari, oltre alle modalità di accesso e di fornitura di cure. Ma non è sempre stato così. Per buona parte della storia umana un’assistenza medica ampia e di qualità è stata un privilegio riservato a chi poteva permettersi di pagarne il costo. Tutti gli altri dovevano affidarsi a istituzioni benefiche che, nei Paesi dove esistevano, provvedevano, ove possibile, a fornire gratuitamente alcuni servizi di base, sostenuti dalla beneficenza.
L’evoluzione dell’assistenza sanitaria è legata a quella del moderno stato sociale. Uno dei primi esempi di riforma per garantire una copertura sanitaria a determinate categorie di persone viene dalla Germania imperiale di fine Ottocento. Il governo guidato dal cancelliere Otto von Bismarck, all’epoca, istituì, oltre a un sistema di previdenza sociale, anche assicurazioni mediche obbligatorie per determinate categorie di lavoratori, e inoltre rese pubbliche alcune strutture sanitarie. Da allora l’obbligo assicurativo è stato dapprima esteso a sempre più categorie di lavoratori, e poi anche alla popolazione non lavorativa. Si stima che nel 1988, a circa un secolo dalla prima legge di Bismarck, la Germania abbia raggiunto la copertura universale.
Dall’inizio del Novecento altri Paesi hanno seguito le orme del modello di Bismarck, ma i progressi maggiori si sono registrati solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nel 1946, nella Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità si dichiara che la salute è un diritto umano, un principio che nel 1948 viene ribadito nella Dichiarazione universale dei diritti umani. E se la salute è un diritto, solo la copertura sanitaria universale lo può garantire.
Nel 1948 nasce, nel Regno Unito, il National Health Service (NHS), sostenuto prevalentemente dalla tassazione generale. Anche in questo caso si tratta di un modello che ha fatto scuola. In Italia il Servizio sanitario nazionale (SSN) è nato nel 1978, ispirato appunto all’NHS. Oggi la maggior parte degli Stati più ricchi utilizza strategie miste per garantire la copertura. Il sostegno complessivo al sistema può essere garantito in parte dalla tassazione, in parte dalla sottoscrizione da parte dei cittadini di assicurazioni pubbliche o private, a volte con il contributo delle aziende, e in parte dal pagamento di prestazioni a carico diretto dei cittadini, presso enti pubblici o privati. A livello mondiale, tuttavia, la copertura sanitaria universale è ancora un privilegio, e il diritto alla salute non è garantito.
Copertura sanitaria universale: una sfida per tutti
Secondo i rapporti dell’Oms, metà della popolazione mondiale non può curarsi come dovrebbe. Quasi un miliardo di persone spende oltre il 10 per cento del proprio reddito per spese mediche, e circa 100 milioni spendono talmente tanto da essere ridotti in povertà. E questo è un problema di tutti.
Come spiega il nostro Istituto superiore di sanità (ISS), un sistema sanitario ideale deve: raggiungere tutta la popolazione presente estendendo la copertura sanitaria anche a chi ne era escluso (universalità); garantire tutti i servizi e le prestazioni necessarie (globalità); e farlo senza caricare la popolazione di ulteriori costi diretti (gratuità).
I Paesi più poveri del continente africano non hanno personale e strutture sanitarie all’altezza per tutti i servizi, quindi nessuno dei tre pilastri è ad un livello di sviluppo sufficiente. Nei (ricchi) Stati Uniti i medici e gli ospedali non mancano, eppure ci sono persone ancora escluse dalla copertura sanitaria perché la sanità è privata e l’intervento dello Stato è da sempre limitato. Anche in Italia non mancano le disuguaglianze, per esempio tra regioni del Nord e quelle del Sud, e tra cittadini residenti e migranti irregolari.
Come mostra questo grafico, rispetto a vent’anni fa nel mondo è comunque aumentata la diffusione dei servizi sanitari rispetto al totale della popolazione da servire. Questo, spiega l’Oms, è probabilmente dovuto al miglioramento delle condizioni economiche di molti Paesi. Parecchie nazioni africane registrano ancora bassi livelli di sviluppo dei servizi, ma in proporzione l’Africa è uno dei continenti che ha fatto più strada. A livello globale i progressi compiuti hanno dato risultati tangibili: l’aspettativa di vita media nel mondo è passata da 66 a 73 anni e, considerando solo il continente africano, c’è stato un “guadagno” di ben 11 anni. Contemporaneamente, però, è aumentata la popolazione che spende troppo per curarsi, anche se negli ultimi tempi si registra un’inversione di tendenza. Purtroppo l’arrivo della pandemia ha ulteriormente complicato la situazione.
Dall’assistenza medica primaria alla copertura sanitaria universale
Nel 2019 l’Oms si era posta l’obiettivo di aumentare di un miliardo, entro il 2023, il numero di persone che godono di un buono stato di salute, che sono protette dalle emergenze mediche e che hanno accesso a una copertura sanitaria universale. I primi due traguardi stanno per essere raggiunti, mentre il terzo, che come gli altri è monitorato attraverso specifici indicatori, purtroppo non potrà essere toccato. Saranno infatti solo 270 milioni in più le persone stimate che potranno godere della copertura il prossimo anno. C’è quindi ancora moltissimo da fare perché la salute diventi, o rimanga, un diritto per tutti.
Ma qual è la strada da seguire? Nel rapporto dl titolo “Tracking Universal Health Coverage – 2021 Global Monitoring Report”, non vi sono dubbi su questo. Per arrivare alla copertura sanitaria universale bisogna prima di tutto investire nell’assistenza primaria e nel suo rafforzamento. Parliamo quindi di medicina di base, radicata sul territorio, che metta al centro le persone e che sia in grado di intervenire prima di tutto sulle malattie più comuni e croniche. Questo è stato uno dei settori più sollecitati dall’emergenza Covid-19, ed è inoltre quello che tende a essere trascurato e a ricevere risorse inadeguate, anche nel nostro Paese. Eppure, secondo l’Oms, solo in presenza di una robusta assistenza primaria è possibile garantire la copertura sanitaria universale.