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Da quanto sappiamo che il fumo uccide?

Come abbiamo accumulato le prove scientifiche sui danni del fumo (e perché ci è voluto tanto per far approvare le prime leggi a tutela di fumatori e non fumatori).

In Italia, dal 2005 è vietato fumare negli spazi pubblici chiusi. Prima il fumo era vietato solo in certe categorie di ambienti, come ospedali, scuole, università, cinema e teatri. Secondo gli epidemiologi, la legge Sirchia, dal nome dell’allora ministro della salute, ha ridotto di un milione circa il numero di fumatori in Italia, e in generale il consumo di tabacco nel Paese. In breve altre nazioni europee hanno seguito l’esempio dell’Italia.

Sono passati 16 anni e può sembrare un’eternità, ma in realtà dovremmo chiederci come mai una legge simile a tutela della salute pubblica sia arrivata così tardi: la prima Giornata mondiale senza tabacco (World No Tobacco Day), voluta dall’Organizzazione mondiale della sanità, è stata celebrata nel 1988.

Le prime evidenze dei danni del fumo

Quand’è che gli scienziati hanno cominciato a capire che il fumo era nocivo? I primi studi scientifici sui danni del fumo risalgono addirittura agli anni Trenta. I medici cominciarono a osservare una relazione tra l’abitudine al fumo e lo sviluppo di malattie come il tumore al polmone, e in generale una riduzione dell’aspettativa di vita nei fumatori. Non potevano ancora provare che tra i due fatti vi fosse un rapporto di causa ed effetto, ma le indagini proseguirono.

Casi clinici, studi epidemiologici ed esperimenti con animali esposti alle sostanze contenute nel fumo puntavano tutti nella stessa direzione. Verso la fine degli anni Cinquanta si raggiunse il consenso scientifico, cioè gli addetti ai lavori si ritrovarono concordi sul fatto che il fumo uccide, in particolare (ma non esclusivamente) aumentando fortemente il rischio di cancro al polmone e di malattie cardiovascolari.

La controffensiva dell’industria

Durante gli anni Cinquanta anche giornali e riviste avevano cominciato a raccontare l’emergente consenso scientifico sui danni del fumo. Ma allora perché è stato necessario così tanto tempo per stabilire delle regole per proteggere la salute dei cittadini? Gli storici della scienza hanno identificato un evento spartiacque. Nel 1953 le industrie del tabacco avevano capito che il settore era minacciato dall’arrivo imminente di leggi e regolamenti contro il fumo, del quale peraltro riconoscevano già i danni. Il 15 dicembre di quell’anno i rappresentanti dei grandi marchi, da Philip Morris a Benson and Hedges, si riunirono al Plaza Hotel di New York per discutere una strategia comune.

Non era ovviamente possibile manipolare i dati delle ricerche o le loro conclusioni. Si potevano però trovare facilmente degli scienziati (spesso non competenti nell’ambito specifico, né esperti di medicina) disposti a intervenire pubblicamente per mettere in dubbio tali ricerche. Se la comunità scientifica era infatti unanime nel sostenere che fumare facesse male, vi erano ancora molte domande a cui rispondere per capire con precisione quanto, chi, e come il fumo uccidesse, e in parte ci sono ancora. Gli industriali decisero che queste incertezze potevano essere sfruttate come arma per portare il grande pubblico a credere che sulla pericolosità del fumo ci fosse ancora un dibattito in corso. L’incontro del 1953 fu decisivo per la formazione del Tobacco Industry Research Committee (in seguito rinominato Council for Tobacco Research) che si occupava di questo tipo di strategia di comunicazione, nonché di finanziare le ricerche degli scienziati che “prestavano” le proprie competenze all’industria del tabacco.

La “strategia del tabacco”

La strategia del Tobacco Industry Research Committee, di fatto, funzionò molto bene. Molti degli scienziati pagati dall’industria avevano un curriculum prestigioso, ed erano quindi ascoltati dai media anche se non facevano ricerca precisamente in quel campo e non avevano competenze dirette. Le ricerche svolte da ricercatori indipendenti dalle industrie del tabacco continuavano a fornire nuovi dati e informazioni sui danni del fumo (anche passivo). Tuttavia, guardando la tv e leggendo i giornali, il pubblico aveva la percezione che gli esperti si dovessero ancora mettere d’accordo.

Le prime, blande, regole sul fumo non sono arrivate per via dei danni causati dal tabacco, ma si trattava, per esempio, di norme di sicurezza per prevenire il rischio di incendi. Sia negli Stati Uniti sia nel resto del mondo le vere leggi anti-fumo, quelle ispirate da principi di salute pubblica, sono state a lungo frenate dalla mancanza di sostegno pubblico, dovuta alla campagna di disinformazione promossa dall’industria del tabacco.

Il Council for Tobacco Research fu smantellato nel 1999, ma la “strategia del tabacco” è ancora viva. La chiamano in questo modo gli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik M. Conway, che nel loro libro I mercanti di dubbi (Edizioni Ambiente, 2019) hanno notato come la stessa strategia sia stata usata per fuorviare l’opinione pubblica su altre importanti questioni scientifiche, come il buco nell’ozono o, più recentemente, il cambiamento climatico antropogenico.

Una questione di fiducia (nella scienza)

Il fatto che pochi scienziati possano mentire ai cittadini per interessi economici non deve farci perdere fiducia nella scienza. Come spiega lo storico Naomi Oreskes in un secondo libro, intitolato (appunto) Perché fidarsi della scienza? (Bollati Boringhieri, 2020), è il processo con cui la scienza progredisce a meritare fiducia, più che i singoli scienziati. È prevedibile, e normale, che gli scienziati che lavorano in uno specifico settore non si trovino d’accordo e discutano tra loro, e che le nuove ipotesi siano vagliate severamente. È così che si formano le conoscenze sintetizzate dal consenso scientifico, cioè dalla collettività della comunità scientifica di riferimento.

Si tratta di un processo che non è né automatico, né tanto meno lineare, e può capitare che il consenso tardi ad arrivare. Ma quando arriva, proprio in ragione del percorso fatto, esso è degno di fiducia. Chi ha negato e nega i danni del fumo, o del riscaldamento globale, opera al di fuori di questo processo, e si muove invece sul terreno delle pubbliche relazioni e degli interessi economici per impedire che il pubblico riconosca quel consenso.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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