Una carrellata di organismi e microrganismi grazie ai quali abbiamo acquisito nuove conoscenze nel campo della biologia, con un occhio particolare alla genetica.
La storia di molte grandi scoperte scientifiche, alcune delle quali con importanti applicazioni (per esempio in campo medico), è strettamente legata agli studi su organismi modello.
Un organismo modello è una specie non umana che è ampiamente studiata prevalentemente in laboratorio per comprendere particolari fenomeni biologici. L’idea è che le scoperte ottenute in tali specie possano fornire informazioni utili sul funzionamento di altri organismi, data la comune origine di tutti i viventi e la conservazione di geni e vie metaboliche e di sviluppo nel corso dell’evoluzione.
Molti organismi modello sono ampiamente utilizzati nella ricerca biomedica sulle malattie umane, laddove la sperimentazione umana sarebbe irrealizzabile o non etica. Proponiamo una piccola rassegna di ricerche che hanno contribuito a fare la storia della biologia, principalmente con l’uso di microrganismi e animali di laboratorio, ma non solo.
Mendel e gli esperimenti con i piselli
Partiamo dall’Ottocento e da un vegetale, il pisello (Pisum sativum). Gregor Mendel, considerato il padre della genetica, adoperò proprio questa pianta negli incroci che lo portarono a elaborare le sue celebri leggi, quelle che hanno gettato le basi per questa branca della biologia. Oltre a essere una pianta facile da coltivare e dal rapido sviluppo, il pisello aveva caratteristiche che lo rendevano particolarmente adatto agli esperimenti che Mendel aveva strutturato. Aveva infatti una serie di caratteri ben definiti nelle varietà disponibili: semi lisci o rugosi, gialli o verdi; baccelli lisci o bitorzoluti, di colore giallo o verde; fiori posizionati lungo il fusto della pianta o in cima, di colore bianco o violaceo; piante alte o basse.
Gli incroci condotti da Mendel tra le varietà di pisello e le elaborazioni matematiche e statistiche dei risultati permisero di dare forma alle tre leggi che costituiranno in seguito la base per la trasmissione dei caratteri ereditari. Con la prima legge, o legge di dominanza, si osservò che incrociando una pianta che apparteneva a una linea pura, cioè che esprime sempre uno stesso carattere (per esempio il colore giallo dei semi), con un’altra pianta appartenente a una linea pura relativamente a un carattere incompatibile con il primo (seguendo lo stesso esempio, il colore verde dei semi), si ottiene sempre, in prima generazione, uno solo dei due caratteri, che viene definito dominante. Il carattere che non si manifesta è detto, invece, recessivo. Si notò, poi, che il carattere che non si era manifestato nella prima generazione poteva ricomparire nella seconda generazione secondo un preciso rapporto numerico e se ne dedusse che l’espressione di ogni carattere dipendeva dalla presenza di due “particelle distinte” derivanti da ciascuno dei genitori (oggi alludiamo a questi concetti parlando di geni e alleli). La seconda legge o legge della segregazione sottolinea, quindi, che in ogni gamete (ciascuna delle cellule sessuali maschili e femminili) è presente solo una di queste “particelle” – che oggi chiamiamo alleli – mentre nello zigote (la cellula che si forma dall’unione del gamete maschile e femminile) ce ne sono due. La terza legge, o legge dell’assortimento indipendente, mette in evidenza come, prendendo in considerazione caratteri diversi (per esempio, la forma e il colore del seme), le diverse “particelle”, o alleli, si distribuiscono nei gameti indipendentemente tra loro (oggi però sappiamo che questo vale solo per i geni presenti su cromosomi diversi e non sempre per i geni che si trovano sullo stesso cromosoma). Nel corso del tempo le conclusioni a cui era arrivato Mendel sono state precisate e corrette da studi successivi e la storia della scienza ha contribuito a chiarire il contesto della loro elaborazione. Questi studi, tuttavia, rimangono sempre una base importante.
Un moscerino cui dobbiamo tanto
Moltissime delle nostre conoscenze in campo genetico ed evolutivo sono legate al piccolo moscerino della frutta, Drosophila melanogaster, una specie che è facile incontrare nella quotidianità poiché depone le uova su frutti o materiale organico marcescente. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un organismo che offre decisi vantaggi agli scienziati che lo studiano. Tra questi vi sono la facilità e rapidità di allevamento, la produzione di molti esemplari per ogni generazione e il fatto di avere solo quattro paia di cromosomi (tre autosomi e una coppia di cromosomi sessuali).
Gli esperimenti del biologo e genetista statunitense Thomas Hunt Morgan (1866-1945) furono tra i primi ad avere il moscerino della frutta come protagonista. Fornirono anche una conferma delle leggi di Mendel, su cui lo stesso Morgan era inizialmente scettico. Dopo numerose osservazioni infruttuose, Morgan notò un esemplare di moscerino che aveva gli occhi bianchi anziché rossi. Facendo incrociare questo esemplare con altri individui, in prima generazione si ebbero solo moscerini con gli occhi rossi: era una conferma della legge di dominanza di Mendel. Nella seconda generazione ricomparve il carattere degli occhi bianchi, a dimostrazione anche della legge mendeliana della segregazione. Gli studi sui moscerini permisero inoltre a Morgan di notare che il carattere degli occhi bianchi si manifestava solo nei maschi, consentendo di elaborare il concetto di carattere legato al sesso, dipendente cioè da geni presenti nei cromosomi sessuali.
Macachi e fattore Rh
A un primate, il macaco rhesus (Macaca mulatta), è legata la scoperta del fattore Rh (il nome deriva appunto dalle prime due lettere di rhesus) del sangue. Il fattore Rh è un tipo di antigene che può essere presente nei globuli rossi (e in questo caso si parla di Rh positivo) o non manifestarsi (Rh negativo).
Il fattore Rh è stato scoperto nel 1940 dal medico e biologo Karl Landsteiner (noto per avere scoperto i gruppi sanguigni) e dall’immunologo Alexander Wiener. Nei loro esperimenti i due scienziati infusero il sangue del macaco rhesus in conigli e cavie, notando nel plasma di questi animali la produzione di anticorpi in grado di distruggere i globuli rossi del sangue del macaco stesso (o di qualsiasi animale che presentasse globuli rossi con l’antigene Rh, esseri umani compresi). Gli studi sull’Rh consentirono di scoprire l’origine della malattia emolitica neonatale, che porta alla distruzione dei globuli rossi di un neonato Rh positivo da parte degli anticorpi presenti nella madre Rh negativa (una condizione che si può verificare nelle gravidanze successive alla prima) e di fornire un’importante base per la terapia di questo problema potenzialmente letale.
Tra gli altri mammiferi più spesso adoperati nella ricerca scientifica soprattutto in campo medico ci sono topi e ratti, alcuni dei quali vengono anche modificati geneticamente. Questi animali sono adoperati nella ricerca medica per lo studio di malattie neurodegenerative, di vari tipi di cancro, di malattie legate al metabolismo e molte altre patologie.
Piccolissimi ma fondamentali
Alcuni importanti studi sono stati condotti su specie invisibili a occhio nudo, i microrganismi. Nello specifico, a un batterio, Escherichia coli, sono legati alcuni famosi esperimenti che hanno contribuito a fornire prove a sostegno della teoria dell’evoluzione. Per esempio, con il cosiddetto test di fluttuazione eseguito con questo batterio (e un virus al quale è sensibile), il medico e biologo Salvador Luria e il biofisico Max Delbrück dimostrarono che nei batteri le mutazioni si verificano spontaneamente e non sono una risposta alla presenza del virus (confermando una visione dell’evoluzione che si avvicina a quella darwiniana e non a quella lamarckiana).
Escherichia coli è anche protagonista di un altro famoso esperimento condotto con lo scopo di verificare il processo dell’evoluzione delle specie. L’esperimento, avviato dal microbiologo Richard Lenski della Michigan State University, si occupa di registrare in questo genere di organismi, le cui generazioni si susseguono con tempi molto veloci, il tasso di mutazioni e l’eventuale nascita di nuove specie. Avviato nel 1988 e in corso ancora oggi, lo studio ha permesso di rilevare alcune mutazioni che potrebbero essere il punto di partenza per la nascita di una nuova specie.
Oltre ai batteri, tra i protagonisti della ricerca ritroviamo anche specie il cui status di organismi è controverso, come nel caso dei virus, che non presentano tutte le caratteristiche tipiche degli esseri viventi (per esempio la capacità di sopravvivere e riprodursi al di fuori dell’organismo ospite). Tra i virus impiegati dagli scienziati rientrano alcuni batteriofagi (o fagi), cioè virus che attaccano esclusivamente i batteri e li sfruttano per riprodursi. Nel 1952 due genetisti americani, Alfred Hershey e Martha Chase, si servirono del fago T2, parassita del batterio Escherichia coli, per dimostrare, con un esperimento, che il materiale genetico è costituito da DNA e non da proteine. Un altro batteriofago parassita di Escherichia coli, il fago lambda, è ancora oggi molto utilizzato come vettore di clonazione attraverso la tecnica del DNA ricombinante.
Importanti innovazioni scientifiche sono state ottenute grazie a ricerche condotte anche con i funghi. Per esempio, una muffa appartenente al genere Penicillium consentì ad Alexander Fleming (1881-1955) di individuare il primo antibiotico, la penicillina. In seguito alla contaminazione casuale di una coltura batterica, una muffa, che appunto produceva penicillina, aveva dimostrato un evidente potere battericida. Un altro fungo, in particolare un lievito, Saccharomyces cerevisiae (noto comunemente come lievito di birra) ha rappresentato un importante organismo modello fin dagli inizi della biochimica moderna, utilizzato da Louis Pasteur e in studi di genetica e citologia. È stato inoltre, nel 1996, il primo eucariote (cioè un organismo con un nucleo ben definito) il cui genoma sia stato sequenziato per intero.
Un piccolo verme che fa parte dei nematodi, lungo un millimetro circa e dal nome di Caenorhabditis elegans, è stato invece, nel 1998, il primo organismo pluricellulare a vedere sequenziato il suo genoma. Questo organismo è stato particolarmente impiegato nelle ricerche sul processo di morte programmata delle cellule, l’apoptosi, che sono valse a Robert Horvitz, Sydney Brenner e John E. Sulston il premio Nobel per la medicina nel 2002. E lo stesso piccolo verme è ancor oggi impiegato in studi su malattie rare dello sviluppo e del neurosviluppo.