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Il fenomeno della bioluminescenza

Come fanno alcuni animali e microrganismi a illuminarsi? Ripercorriamo i meccanismi coinvolti in questo fenomeno, e il suo impiego nella ricerca biomedica.

Il lampeggiare delle lucciole è uno dei fenomeni più affascinanti e “magici” che le notti d’estate in mezzo alla natura ci possano regalare. La luminosità generata da questi coleotteri grandi appena una manciata di millimetri è un vero e proprio concentrato di scienza, nonché un evento che si ripropone in infinite varianti anche in moltissime altre specie di animali (e non solo).

Il termine bioluminescenza viene usato proprio per definire la luce generata attraverso reazioni chimiche all’interno di un organismo vivente. Un processo che non solo ha da sempre incuriosito gli studiosi, ma i cui meccanismi vantano anche moltissimi tentativi di imitazione o di applicazione da parte di noi esseri umani. Ecco da vicino come funziona, quali organismi ne fanno uso e quali le prospettive che si sono aperte grazie alla bioluminescenza nel mondo della ricerca.

Una luce chimica

La possibilità per animali come le lucciole di emettere luce è legata a una reazione chimica (nello specifico, un’ossidazione) cui vanno incontro le luciferine, un gruppo di sostanze che in presenza di ossigeno vengono trasformate in altre molecole, le cosiddette ossiluciferine, grazie alla catalisi da parte degli enzimi luciferasi. La luce prodotta nel corso della reazione è fredda: ciò significa che durante la trasformazione chimica – che avviene, nel caso delle lucciole, all’interno dell’addome dell’organismo – la stragrande maggioranza dell’energia viene convertita in radiazione luminosa mentre solo una piccolissima frazione viene dispersa sotto forma di calore.

Una gran varietà di creature bioluminescenti emette luce attraverso la reazione tra specifiche luciferine e luciferasi, ma questi processi (una parte dei quali non sono ancora stati studiati) possono coinvolgere sostanze differenti. Fermo restando, però, che alla base c’è sempre l’interazione tra due diversi agenti chimici: una molecola che funge da substrato (come appunto la luciferina) e un catalizzatore (come la luciferasi).

Tutti i fenomeni di bioluminescenza emettono una luce che appare gialla, come nel caso delle lucciole? Niente affatto: organismi diversi possono produrre luci di colore anche molto distante dal giallo, come il verde, il rosso o il blu. Ciò dipende dal tipo di molecole di substrato nel sito di reazione, oltre che dalla diversità dell’habitat e dalle caratteristiche dell’organismo emettitore.

Un vero zoo di creature luminose

L’esempio più comune di bioluminescenza, come abbiamo detto, è quello delle lucciole, che si affidano a questa loro abilità nella fase del corteggiamento che prepara all’accoppiamento. Esistono tuttavia moltissime altre specie animali (e non) che si servono della capacità di emettere luce i comportamenti più disparati. Solo una piccola frazione di queste specie popola la terraferma: si tratta essenzialmente di insetti, prevalentemente coleotteri, ma anche appartenenti ad altri ordini (elateridi e collemboli, per esempio), comprese alcune larve (come quelle dei ditteri).

Inoltre sulla terraferma esistono decine di specie di funghi bioluminescenti, localizzate in particolare nelle regioni tropicali. In questo caso è probabile (ma ancora non stabilito con certezza) che l’emissione di luce serva loro a difendersi da possibili predatori e ad attrarre piccoli organismi (come gli insetti) che possano contribuire a disperdere le spore nel buio sottobosco delle foreste.

Luci tra le onde

È l’oceano, tuttavia, il luogo più riccamente popolato di organismi bioluminescenti, e il “teatro” in cui lo spettacolo dovuto alla varietà di luci e organismi si esprime al suo massimo.

Moltissimi pesci (solo tra questi, sono circa 1.500 le specie bioluminescenti conosciute), cefalopodi (la classe cui appartengono seppia, calamaro e polpo, per intenderci), cnidari (come meduse e coralli) e microrganismi come i batteri manifestano questa capacità, a prescindere dalle fasce di profondità marine o oceaniche in cui abitano.

In profondità sono particolarmente diffusi i pesci lanterna, che comprendono una gran varietà di piccole specie, ciascuna delle quali mostra sulla superficie motivi caratteristici dovuti alla disposizione dei fotofori, gli organi dotati della capacità di emettere luce. E gli esempi di altre varietà di creature subacquee in grado di emettere luce in modo simile si sprecano.

Esistono anche animali che, pur non possedendo le proprietà chimiche per produrre luminosità in modo autonomo, sfruttano la luce prodotta da altri organismi, talvolta in modo molto originale.

È il caso di uno dei pesci più noti (e allo stesso tempo più difficili da osservare) degli abissi, i cosiddetti lofiformi (noti come anglerfish in inglese), che “prendono in prestito” la bioluminescenza di alcuni batteri per attirare e catturare le prede. I batteri, che col pesce hanno un rapporto di simbiosi, popolano un’escrescenza simile a una lenza sporgente sul suo capo, ottenendo protezione e nutrienti in cambio della luce. Dall’aspetto totalmente diverso, ma in una relazione simile, il calamaro delle Hawaii è un piccolo mollusco (conosciuto in inglese come bobtail squid) che ospita batteri bioluminescenti all’interno di piccole cavità nella parte inferiore del corpo. Quando il calamaro delle Hawaii emerge dal fondale sabbioso, di notte, le aperture delle cavità si espandono e contraggono in risposta alla quantità di luce lunare che penetra attraverso le acque soprastanti, in modo che la sua sagoma si confonda con l’ambiente, risultando meno visibile all’occhio dei predatori.

Quando si ritrovano in enormi quantità e in presenza di particolari condizioni, i batteri possono dare origine a uno dei fenomeni di bioluminescenza più spettacolari in assoluto: i cosiddetti milky seas, bagliori molto intensi che possono ricoprire ampie superfici dell’oceano, alle quali conferiscono (appunto) il colore bianco del latte. Tali fenomeni sono stati osservati (e rilevati e studiati persino dallo spazio) in particolare nelle aree tropicali, come l’Oceano Indiano.

Domatori di luce (e di geni)

Nel corso della storia gli esseri umani si sono adoperati con molta fantasia per far entrare e mettere a frutto il potenziale della bioluminescenza anche nella loro vita. Si racconta, forse con qualche immaginazione, che nell’antichità i funghi luminosi consentissero ad alcune tribù umane di orientarsi attraverso la giungla, o che la luce intensa delle lucciole aiutasse i minatori ad affrontare l’oscurità delle cavità sotterranee. In tempi più moderni sono probabilmente le applicazioni biomediche quelle che hanno suscitato più interesse, con molti scienziati impegnati a comprendere i meccanismi della bioluminescenza nel mondo animale per provare a replicare e sfruttare questo fenomeno in biologia e medicina.

Nel 2008 il premio Nobel per la chimica è stato assegnato a Osamu Shimomura, Martin Chalfie and Roger Y. Tsien per la scoperta e lo sviluppo di una proteina individuata proprio nel corso di studi sulla bioluminescenza. Si tratta della cosiddetta green fluorescent protein (GFP), o proteina verde fluorescente, una sostanza che si trova in natura in alcune specie di meduse e che conferisce a queste creature, che già hanno la capacità di generare luce blu, anche quella di emettere luce verde attraverso il fenomeno (ulteriore) della fluorescenza. Dalla scoperta, il gene che codifica per la GFP è stato inserito in laboratorio in molte cellule e organismi animali. Associato nel DNA all’attivazione di numerosi altri geni, ha contribuito alla comprensione di una varietà di processi biochimici e di patologie, tanto da essere ormai considerato uno strumento indispensabile per la ricerca biomedica.

Alice Pace
Giornalista scientifica freelance specializzata in salute e tecnologia, anche grazie a una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche e un dottorato in nanotecnologie applicate alla medicina. Si è formata grazie a un master in giornalismo scientifico presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste e una borsa di studio presso la Harvard Medical School di Boston. Su Instagram e su Twitter è @helixpis.
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