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Scoperte serendipiche – L’uomo che inventò il viola

La storia del chimico William Henry Perkin, che mentre lavorava al chinino scoprì per caso il primo di una lunga serie di coloranti sintetici: la mauveina (o porpora di anilina).

Se ogni giorno possiamo indossare i nostri colori preferiti, lo dobbiamo – per una serie di circostanze anche legate al caso – all’esistenza di una malattia: la malaria. Fu un chimico diciottenne alla ricerca di una cura per questa patologia, e con un ottimo fiuto per gli affari, a inaugurare, a metà del XIX secolo, un nuovo tipo di industria che ha cambiato il mondo. E non solo nel campo dei colori.

Il piccolo chimico

Il protagonista della nostra storia è William Henry Perkin. Nato a Londra nel 1838, poco dopo l’insediamento della regina Vittoria, da una famiglia benestante (il padre era un costruttore), dimostra sin da ragazzo di avere una marcia in più rispetto ai suoi coetanei. Osserva i falegnami dipendenti del padre e si cimenta con la carpenteria, legge libri di meccanica e ingegneria e ricopia i progetti del padre, si avvicina alla pittura e alla fotografia. La famiglia immagina per lui un futuro come architetto. Ma un giorno, come racconterà in seguito il diretto interessato, un amico gli mostra degli esperimenti di cristallizzazione e Perkin è folgorato. Intorno ai 12-13 anni il ragazzo incontra di fatto il suo vero amore: la chimica.

Studia alla City London School, una delle prime scuole dove si insegnavano le scienze, poi a 15 anni approda al Royal College of Chemistry, dove diventa pupillo di August Wilhelm von Hofmann, un importante chimico tedesco che studiava il modo di ricavare composti utili dal catrame di carbone.

Una moderna pietra filosofale

Di catrame ce n’era in abbondanza nel corso della Rivoluzione industriale. Dal carbon fossile estratto dalle miniere si ottenevano carbon coke e gas, dei quali il catrame è un sottoprodotto di lavorazione. All’epoca veniva usato per lo più come impermeabilizzante, ma siccome l’offerta superava comunque la domanda, i chimici come Hofmann erano al lavoro per trovare metodi che permettessero di trasformarlo in composti organici, che avrebbero potuto fare la differenza nei processi industriali. Una sorta di rivisitazione del mito alchemico della pietra filosofale, che (stando alla leggenda) sarebbe stata in grado di trasformare il piombo in oro.

Il giovane Perkin, diventato assistente onorario di Hofmann, lavora a questo tipo di ricerche al Royal College of Chemistry, ma parallelamente sperimenta anche in un laboratorio privato che si è costruito nella casa di famiglia. Nel suo laboratorio decide di provare a sintetizzare il chinino – al tempo l’unico rimedio disponibile contro la malaria  – partendo da composti del catrame, una possibilità che il suo mentore, Hofmann, aveva ipotizzato qualche anno prima in una pubblicazione. Il chinino veniva estratto tradizionalmente dalla corteccia di alberi del genere Cinchona, diffusi nella fascia tropicale, con un processo laborioso e costoso. La possibilità di sintetizzare la sostanza desiderata in laboratorio avrebbe portato vantaggi sotto tutti i punti di vista, tanto più che la malattia era diffusa anche nelle colonie inglesi. La sintesi del chinino avrebbe regalato all’Impero britannico una medicina salvavita a costi più contenuti. Il piombo in oro, appunto.

Durante le vacanze di Pasqua del 1856 Perkin prova a sintetizzare il farmaco, senza successo. Al termine di un esperimento trova però sul fondo del pallone di reazione un precipitato nero: mentre pulisce il recipiente con alcol ottiene una soluzione color malva e realizza che il residuo ottenuto durante il tentativo di sintesi ha le proprietà di un colorante.

La rivoluzione dei coloranti artificiali

Facciamo un passo indietro. L’essere umano colora gli oggetti con due grandi classi di sostanze: i coloranti (dyes, in inglese) e i pigmenti. La differenza, essenzialmente, è che mentre i pigmenti ricoprono la superficie che vogliamo colorare, i coloranti vi si legano chimicamente. È possibile utilizzare pigmenti e coloranti del mondo naturale, provenienti da fonti animali, vegetali o minerali, ma, così come per il chinino, la materia prima non è sempre facile da procurare e la lavorazione comporta costi elevati.

La sostanza scoperta da Perkin prenderà il nome di porpora di anilina, in quanto ottenuta a partire dall’anilina, un composto organico che, grazie al catrame da cui deriva, di certo non scarseggiava. Sarà poi ribattezzata in mauveina (da mauve, la parola che indica il colore del fiore di malva, mallow), il primo colorante artificiale prodotto industrialmente.

Intuendone il potenziale commerciale, Perkin invia un campione di colorante al proprietario di una tintoria, Robert Pullar, che gli risponde: “Se la sua scoperta non rende i prodotti troppo costosi, è sicuramente una delle più preziose da diverso tempo a questa parte. Questo è un colore molto richiesto in tutte le classi di prodotti, non si ottiene velocemente sulle sete, e solo spendendo molto si ottiene sulle fibre di cotone”. Nell’agosto dello stesso anno Perkin chiede e ottiene il brevetto: ha diciotto anni, ed è appena diventato un inventore.

Decide di mettere a reddito la sua scoperta, ma per farlo non è sufficiente aprire una fabbrica, deve fondare un nuovo tipo di industria. Ci riesce grazie al padre, che mette in gioco la maggior parte del proprio capitale, e allo spirito imprenditoriale del fratello, che si fa carico della parte più commerciale dell’impresa per lasciare a Perkin (che nel frattempo ha lasciato il Royal College) quella che oggi chiamiamo l’attività di “ricerca e sviluppo”. Nel 1857 apre i battenti Perkin and Sons, la prima fabbrica di coloranti sintetici. Il successo è immediato: nessun colorante naturale può competere con la mauveina, e il colore diventa subito di gran moda, tanto che la stessa regina Vittoria indossa abiti color malva in diverse occasioni ufficiali. E Perkin non si ferma, mettendo in seguito a punto altri colori e sfumature e ottimizzando la produzione.

All’inizio il dominio della Perkin and Sons è incontrastato, ma nel 1870 il mercato è già inondato di nuovi coloranti prodotti da industrie concorrenti, soprattutto tedesche, che avevano seguito i suoi passi. Perkin nel 1874 decide saggiamente di vendere la ditta e si ritira – o meglio, si ritira dall’industria dei coloranti, perché una volta sollevato dagli impegni del business torna alla ricerca scientifica, che conduce dalla sua casa-laboratorio. Muore nel 1907, un anno dopo essere diventato baronetto, e sommerso di onori. In suo nome la Society of Chemical Industry in America ha istituito un premio, la Perkin Medal.

Dai coloranti alle medicine

Se la storia di Perkin è di per sé straordinaria, la sua eredità lo è ancora di più. L’industria dei coloranti sintetici, infatti, cominciò presto a diversificarsi. Man mano che il know-how aumentava, si ampliava la lista di composti organici che potevano essere sintetizzati. Le aziende che avevano cominciato coi coloranti sintetici cominciarono a produrre anche molte altre sostanze: pesticidi, armi ma anche farmaci. Il più famoso al mondo, noto col nome commerciale di aspirina, è un prodotto di sintesi realizzato da un’azienda che produceva coloranti a partire dal catrame di carbone e che oggi è una delle maggiori multinazionali farmaceutiche e non solo: la Bayer.

Non è finita qui. Mentre Perkin lasciava il proprio business, uno scienziato tedesco di nome Paul Ehrlich cominciava a usare gli abbondanti coloranti sintetici per studiare le cellule e i tessuti. Ehrlich scoprì che i coloranti erano selettivi sui preparati biologici, cioè si legavano ad alcune cellule, o a parti di esse, e ad altre no. Alla luce di questo riuscì, per esempio, a differenziare i vari tipi di globuli bianchi, aprendo le porte alla comprensione del sistema immunitario. Se i coloranti avevano una affinità per specifiche cellule, ragionò Ehrlich, allora poteva essere così anche per le medicine. Il salvarsan, il primo farmaco utilizzato contro la sifilide, è stato sviluppato da Ehrlich all’inizio del XXI secolo proprio cercando un composto sintetico a base di arsenico con le proprietà di un colorante, che fosse capace di uccidere selettivamente il parassita Treponema pallidum limitando nel contempo i danni ai tessuti sani. È con Ehrlich che nasce il concetto di chemioterapia nella sua accezione più ampia, cioè quella di un composto chimico che cura. La chemioterapia contro il cancro è un caso particolare di questo approccio, perché il farmaco ha come bersaglio delle cellule che sono molto simili a quelle sane, ma il principio basato sulla selettività è identico. E tutto, se vogliamo, ha avuto inizio con un recipiente di vetro macchiato di violetto.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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