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Nel cervello di un musicista

Suonare uno strumento musicale può aiutare a mantenere il cervello in salute, anche quando si invecchia.

La riserva cognitiva è la capacità del nostro cervello di contrastare il declino delle funzioni cerebrali, legato all’avanzare dell’età. Si nutre di interazioni sociali, condivisione, interessi e attività culturali, come la lettura o la scrittura, ma anche e soprattutto la musica. Grazie all’elevata e complessa attivazione cerebrale che avviene quando si suona uno strumento, la pratica musicale è uno dei modi più utili (e piacevoli) per mitigare le inevitabili disfunzioni cognitive che accompagnano l’invecchiamento. Può infatti contribuire sia a preservare le abilità cognitive già sviluppate con l’esercizio, sia a compensare quelle in declino con l’età.

Trasformazioni in corso

L’intensa e prolungata pratica musicale provoca profondi cambiamenti nel cervello dei musicisti. In genere si inizia a suonare da molto piccoli, quando si possiede una maggiore plasticità cerebrale, ovvero la capacità del cervello di adattarsi agli stimoli esterni. Quando si è bambini si generano infatti con maggiore facilità nuovi neuroni e sinapsi, ed è quindi più semplice far diventare automatici i complessi e fini movimenti del corpo e delle dita necessari per suonare uno strumento.

Tuttavia a prescindere da quando si sia iniziato, resta fondamentale esercitarsi a lungo. Più tempo si trascorre allo strumento, più si sviluppano le numerose aree della corteccia cerebrale coinvolte nella pratica musicale, come quelle motorie e premotorie, che regolano i movimenti. Inoltre si attiveranno in modo diverso e specifico le regioni temporali uditive, dove sono distinti e riconosciuti i suoni. Ascoltando per la prima volta un’aria del compositore barocco Johann Sebastian Bach, nel cervello dei non musicisti sembra attivarsi maggiormente l’emisfero destro, mentre nei musicisti quello sinistro, che codifica e rielabora i suoni. È inoltre maggiore il volume occupato sia dal cervelletto, che contribuisce all’apprendimento motorio e procedurale, sia del corpo calloso, che veicola il veloce scambio di informazioni tra le aree destra e sinistra del cervello. Nei musicisti professionisti, infine, si attivano di più anche le regioni corticali frontoparietali che sono responsabili della rappresentazione dell’azione, dell’esecuzione motoria e di molte altre funzioni coinvolte nell’esecuzione.

I vantaggi inaspettati della musica

Al termine di anni di formazione musicale, quindi, il cervello non sarà più quello di prima. Si imparerà a suonare uno strumento, a intonare e a distinguere i suoni, ma potrebbero migliorare anche altri aspetti cognitivi al di fuori della musica, come le capacità linguistiche, di lettura e memoria verbale. Con l’avanzare dell’età questa risorsa diventa ancora più utile per mitigare l’inevitabile declino cognitivo tipico dell’invecchiamento. In genere un musicista anziano è in grado di memorizzare, ascoltare e rappresentare il linguaggio come un giovane adulto, e meglio di una persona anziana che non ha mai suonato. Il cervello di un musicista anziano può inoltre essere maggiormente in grado di compensare il declino di determinate aree cerebrali con un’attività più intensa in altre regioni, come quelle sensoriali o frontali. Lo dimostrano anche i risultati di un recente studio pubblicato sulla rivista Science Advances. Attivando di più alcune aree e inattivando maggiormente altre, i cervelli dei musicisti anziani riescono a distinguere, riconoscere e seguire un discorso, nel rumore di fondo, con la stessa capacità di un giovane adulto, e meglio delle persone avanti con l’età che non hanno mai suonato.

La pratica musicale potrebbe persino contribuire a prevenire la demenza, che, a differenza del naturale declino cognitivo dell’invecchiamento, è una vera e propria patologia neurodegenerativa frequente degli anziani. Questa malattia porta a perdere la memoria e il controllo delle emozioni, compromettendo le relazioni sociali e la vita di tutti i giorni. Solo in Italia si stima che quasi 1 milione e 300.ooo persone siano affette da demenza, ovvero più del 2 per cento della popolazione, in base ad analisi del 2019. Si tratta di numeri che, secondo gli esperti, potrebbero raddoppiare entro il 2050. Ma la musica potrebbe essere d’aiuto per contrastare questa tendenza. Lo dimostrano i risultati di uno studio svolto in collaborazione da ricercatori in California e in Svezia. Gli scienziati hanno seguito nel tempo più di 400 coppie di gemelli, di cui uno musicista e l’altro no, osservando l’eventuale insorgere della demenza. Hanno così scoperto che, invecchiando, il gemello musicista aveva una probabilità ridotta del 64 per cento circa di incorrere in questa malattia, rispetto all’altro fratello o sorella.

Non è mai troppo tardi

Se non si pratica ancora musica, non è mai tardi per iniziare. Seppure bambini e ragazzi apprendano con maggiore facilità, anche da adulti si può imparare a suonare, perché il cervello mantiene una certa plasticità neuronale. Infatti, in alcune parti del cervello continuano a formarsi nuovi neuroni e sinapsi. Se l’esercizio è costante e prolungato nel tempo, i gesti e movimenti acquisiti possono indurre modifiche biochimiche strutturali che portano a imprimerli nella memoria per mesi e anni. Rispetto a quando si è piccoli, da adulti si tende anche a essere più motivati e consapevoli dell’importanza e dei benefici della pratica musicale. Ci si distrae meno durante l’esercizio e si apprezza di più il tempo dedicato a questa disciplina, con conseguenze positive anche sull’umore. Suonare permette di esprimere le emozioni e di coltivare relazioni sociali, per esempio entrando in un piccolo gruppo o orchestra amatoriale.

Non si può negare che avvicinarsi alla musica sia complesso, richieda tempo e impegno. Tuttavia, qualunque sia il motivo che porta a farlo, ci si accorgerà ben presto di quanto sia un buon modo per alimentare le riserve cognitive e per prendersi cura della propria salute mentale, di oggi e di domani.

Camilla Fiz
Comunicatrice della scienza, ha terminato il master in comunicazione della scienza alla SISSA di Trieste, dopo una formazione in biotecnologie molecolari all’Università degli studi di Torino e in pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi della stessa città. Oggi si occupa della realizzazione e revisione di testi sui temi di salute e ricerca biomedica per Fondazione AIRC.
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