Creati sfruttando l’editing genetico, i pomodori arricchiti di vitamina D potrebbero aiutare le persone ad assumere, attraverso la dieta, una dose quotidiana adeguata di questa sostanza, alleviando un problema di salute di portata globale.
Carenza di vitamina D? Un giorno per colmarla potrebbe bastare mangiare pomodori! Un gruppo internazionale di ricercatori – anche italiani – guidato da Cathie Martin, ha scoperto che è possibile modificare geneticamente i pomodori in modo che producano dosi maggiori di questa sostanza. Le tecniche utilizzate includono metodi di editing genetico analoghi a quelli già impiegate per altre specie di piante.
Si tratta di una scoperta che potrebbe essere molto utile considerando che circa un miliardo di persone nel mondo soffre di una insufficienza di vitamina D, secondo numerose stime epidemiologiche, riportate anche in un articolo del Servizio europeo di informazione in materia di ricerca e sviluppo (CORDIS). Nella sua forma attivata, questa vitamina ha funzioni di regolazione per molti organi e sistemi, con un ruolo decisivo nel metabolismo osseo, nel controllo degli stati infiammatori e degli equilibri del sistema immunitario. Data l’importanza di questa sostanza, la carenza di vitamina D è associata a una serie di problemi di salute più o meno gravi.
L’importanza della vitamina D: un tema di salute globale
Esponendo la pelle ai raggi UVB, il nostro corpo è in grado di produrre la vitamina D in maniera del tutto autonoma. In molti casi condurre una vita sana con sufficienti periodi all’aperto è sufficiente – specialmente alle nostre latitudini – a garantire un apporto sufficiente di questa sostanza. Un’ulteriore fonte di vitamina D è il cibo, anche se gli alimenti che ne contengono una quantità adeguata non sono numerosissimi. Tra questi vi sono il pesce, in particolare il salmone e il pesce azzurro, le uova, il latte e il fegato soprattutto di manzo e di merluzzo. Non esiste al momento una soglia univoca che definisca la concentrazione ideale di vitamina D nel sangue. Secondo l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), sono accettabili tutti i valori compresi tra 20 e 40 nanogrammi per ogni millilitro di sangue.
Ciò che ormai la comunità scientifica ha ampiamente verificato è che una grave carenza di vitamina D è associata a una serie di disturbi e a un rischio aumentato di sviluppare forme di cancro o di declino neurocognitivo precoce. Ciò non significa che di norma sia consigliabile ricorrere a integratori. Questi, infatti, sono raramente necessari e inoltre possono interferire con l’effetto di alcuni farmaci piuttosto comuni. Per questo è senz’altro opportuno tenere sott’occhio la concentrazione di questa sostanza nel sangue, ma è fondamentale intervenire, laddove necessario, solo su indicazione del medico.
Perché proprio i pomodori
I pomodori, a differenza degli altri vegetali, contengono nelle foglie la provitamina D3 (detta anche 7-DHC), che viene poi convertita in vitamina D3 (colecalciferolo). La specie fa parte della famiglia delle solanacee, un gruppo di piante che ha bisogno di molto sole. Studiando i pomodori, alcuni ricercatori hanno osservato che, modificando adeguatamente alcune parti del genoma, è possibile arricchire le foglie di vitamina D, rendendole una fonte vegetale sostenibile con cui possibilmente ottenere l’integrazione della carenza nelle persone colpite.
Con qualche ulteriore “ritocco” genetico, i ricercatori guidati da Cathie Martin hanno pensato che la preziosa sostanza potesse essere fatta arrivare anche nel frutto che abitualmente consumiamo sulle nostre tavole. Utilizzando un percorso scientifico già consolidato per altri vegetali, come le melanzane, le patate e il pepe, e inducendo una particolare biosintesi, l’ipotesi è diventata realtà. I pomodori biofortificati potrebbero rappresentare così una nuova strada per assumere vitamina D in quantità adeguata. Per vegetariani e vegani, in particolare, questa potrebbe essere una buona notizia, anche se i pomodori sono in genere mangiati anche da chi non ha fatto queste scelte alimentari.
I risultati degli esperimenti: vitamina D in abbondanza
Come riportato in un articolo pubblicato sulla rivista Nature Plants a maggio 2022, per modificare la sequenza genetica del pomodoro è stata utilizzata la tecnica di editing CRISPR/Cas9, uno strumento per il “taglia-e-cuci” del DNA con cui è stato inattivato un enzima coinvolto nel processo di conversione della provitamina D3 in vitamina D3. In seguito le piante sono state esposte a un intenso irraggiamento di tipo UVB per oltre 16 ore al giorno, con una temperatura intorno ai 20 °C. I risultati sono stati sorprendenti: il pomodoro ottenuto non solo è ipervitaminico, ma mantiene inalterate le altre caratteristiche tipiche del frutto.
La vitamina D3 presente in un pomodoro biofortificato equivale a quella contenuta in due uova o in 28 grammi di tonno. Inoltre essa è distribuita sia nella buccia sia nella polpa. I ricercatori hanno stabilito che, se i frutti ottenuti verranno ulteriormente esposti al sole, si otterrà una quantità ancora maggiore di vitamina D. Tutti i test sono stati eseguiti almeno tre volte per dare maggiore solidità statistica al risultato ottenuto. Se i frutti così ottenuti otterranno risultati positivi anche in studi con esseri umani, un paio di pomodori al giorno potrebbero bastare per ottenere un apporto adeguato di vitamina D.
Una soluzione che interessa soprattutto vegetariani e anziani
La possibilità di assumere una buona quantità di vitamina D a partire da un vegetale rappresenta un’ottima notizia sotto vari punti di vista. Anzitutto, chi segue una dieta vegetariana potrebbe così compensare il fatto che di norma i vegetali sono scarsi apportatori di vitamina D. Anche gli anziani, che con l’età spesso perdono il livello ottimale di 7-HDC, potrebbero tratte beneficio dal potenziamento vitaminico del pomodoro.
Questa innovazione apre quindi nuovi scenari per ottenere maggiormente dall’alimentazione i benefici sui livelli di vitamina D forniti soprattutto dall’esposizione al sole. È anche possibile che, in un futuro nemmeno troppo lontano, le foglie del pomodoro possano diventare un’importante fonte di vitamina D nella dieta, sempre se il loro consumo sarà valutato come sicuro ed efficace in opportuni studi in esseri umani.