TORNA ALLE NEWS

Scoperte serendipiche – Ecco il teflon, un materiale tuttofare

La scoperta del teflon, il materiale usato a lungo per rivestire, tra le altre cose, le padelle, è avvenuta casualmente nel 1938 nel laboratorio del chimico americano Roy J. Plunkett. Plunkett aveva individuato un curioso polimero all’interno di una bombola di gas refrigerante che all’epoca stava studiando. Quel polimero ha avuto in seguito, e ha tutt’ora, una sterminata lista di applicazioni.

Il politetrafluoroetilene (PTFE), meglio noto col nome commerciale teflon, è un materiale che almeno per sentito dire conosciamo più o meno tutti, poiché riveste molte delle nostre padelle antiaderenti e impedisce ai cibi di attaccarvisi durante la cottura. Spesso si dice che a inventarlo siano stati gli scienziati della Nasa, e il PTFE viene quindi citato come esempio di come la ricerca spaziale possa rivoluzionare anche la vita di tutti i giorni. Ma le cose non stanno proprio così. Il teflon è stato in realtà scoperto nel 1938, quando la Nasa non esisteva ancora (sarebbe stata fondata vent’anni più tardi). Era il 6 aprile e per il chimico Roy J. Plunkett, ricercatore dell’azienda statunitense DuPont, la giornata in laboratorio era cominciata con un imprevisto. Aprendo la valvola di una piccola bombola piena di tetrafluoroetilene (TFE) il gas non usciva fuori sibilando come invece avrebbe dovuto.

Frigoriferi, gas refrigeranti e brevetti

Facciamo un passo indietro per capire cosa stesse studiando Plunkett in quel momento. Nel frigorifero che quasi ognuno di noi ha in cucina, un compressore comprime il gas refrigerante e lo invia a un condensatore, dove il gas passa allo stato liquido. Il liquido attraversa poi un evaporatore, dove, a pressione più bassa, passa nuovamente allo stato gassoso. L’evaporazione del liquido sottrae calore e questo raffredda l’interno del frigorifero. In un secolo il principio di base del frigorifero domestico non è cambiato molto, ma sono cambiati i gas. I primi frigoriferi usavano gas infiammabili o corrosivi, pericolosi da mettere in cucina, ma a partire dagli anni Trenta arrivarono i clorofluorocarburi, una classe di composti allora considerata innocua: solo molti decenni più tardi si scoprì che distruggono l’ozono stratosferico.

I clorofluorocarburi erano fabbricati dalla Kinetic Chemicals, una società fondata nel 1930 dalla DuPont e dalla General Motors, e il più famoso di tutti era il diclorotetrafluoroetano, meglio noto come Freon 114. Quest’ultimo era però un’esclusiva della Frigidaire, un marchio di elettrodomestici della General Motors, motivo per cui la DuPont decise di cercare un’alternativa.

Una scoperta top secret

Roy Plunkett era allora un giovane chimico statunitense approdato alla DuPont subito dopo il dottorato, nel 1936. Il compito che gli era stato assegnato era trovare un composto simile al Freon 114 e libero dalle pastoie del brevetto. Plunkett pensò al clorotetrafluoroetano, che avrebbe ottenuto con una serie di reazioni a partire dal tetrafluoroetilene. Quel 6 aprile del 1938, come raccontato dallo stesso Plunkett, il suo assistente Jack Rebok scelse una bombola, aprì la valvola e non successe nulla. Eppure, dal peso la bombola doveva essere piena. I due ricercatori armeggiarono inutilmente con la valvola, decidendo infine di svitarla: al suo interno non c’era più traccia di gas. Ne uscì invece una strana polverina bianca, in quantità tuttavia troppo modesta per giustificare il peso. Pur di venirne a capo, Plunkett e Rebok segarono infine la bombola e, finalmente, trovarono la spiegazione: un accumulo, sul fondo, della stessa polverina.

Plunkett capì immediatamente che il gas si era completamente polimerizzato, che si erano cioè erano formate lunghe molecole composte da unità ripetute: il tetrafluoroetilene (TFE) era diventato una plastica, il politetrafluoroetilene (PTFE). Non era certamente quella la reazione che il chimico voleva ottenere ma, oltre ai gas refrigeranti, la ricerca alla DuPont si interessava all’epoca anche al filone dei nuovi polimeri. Quindi, anziché buttarla, Plunkett fece analizzare la polverina ad alcuni colleghi per capire se potesse servire a qualcosa. Il PTFE risultava chimicamente inerte, resistente alle sostanze più corrosive e alle alte temperature.

Non fu subito chiaro come si potesse fabbricare la sostanza a costi sufficientemente bassi da diventare materiale di consumo e ancora nessuno, allora, pensava alle padelle. Ma nel 1941 la notizia del nuovo materiale giunse alle orecchie del generale Leslie Groves, che dirigeva il progetto Manhattan. Dopo averne verificato le proprietà, il generale Groves chiese alla DuPont di proseguirne lo sviluppo, nel più assoluto segreto. Il PTFE tornò utile per realizzare guarnizioni e rivestimenti non soggetti a corrosione negli impianti dove gli scienziati arricchivano l’uranio per costruire le prime bombe atomiche.

Un materiale tuttofare, ma è sicuro?

Solo dopo che le bombe atomiche furono (purtroppo) sgangiate sul Giappone, la DuPont fu libera dal segreto militare e poté lanciare sul mercato il PTFE, scegliendo teflon come nome commerciale per assonanza con nylon e rayon. Da quel momento gli usi del teflon si sono moltiplicati e oggi se ne producono circa 200.000 tonnellate l’anno. Oltre che per il rivestimento delle padelle, viene utilizzato, per esempio, per isolare i cavi, ridurre l’attrito degli ingranaggi e realizzare tessuti idrorepellenti. Anche la Nasa, pur non avendolo inventato, lo ha impiegato per scudi termici e tute. Il teflon è utile persino in medicina, per esempio nella realizzazione delle protesi e dei cateteri. Insomma, dallo spazio alla cucina, è ovunque.

È molto comune la raccomandazione di sostituire le padelle che hanno rivestimento interno danneggiato. Il motivo è che il PTFE può diventare nocivo quando si scalda talmente tanto da cominciare a decomporsi (tramite la reazione di pirolisi). La resistenza al calore di questo polimero è infatti eccezionale, ma non infinita, e oltre i 450 gradi esso si degrada rilasciando dei fumi. Questi, se inalati, sono letali per gli uccelli e possono intossicare anche gli esseri umani, causando i sintomi della cosiddetta “febbre da teflon”. Per raggiungere la pirolisi del teflon tra le mura domestiche è però necessario un certo impegno: cucinando è di fatto impossibile raggiungere quelle temperature. Può però succedere lasciando una padella vuota, asciutta, sul fuoco per lungo tempo. L’intossicazione negli esseri umani è un incidente raro, e di solito si risolve senza conseguenze permanenti, anche se esistono casi più seri e almeno una persona è morta (non per una padella lasciata sul fuoco, ma in seguito a un incidente in una fabbrica di plastica).

Che cos’è il PFOA e perché c’entra col teflon

Un altro aspetto da considerare in merito alla sicurezza del teflon riguarda la sua fabbricazione. A lungo nel processo di realizzazione del PTFE è stato infatti usato il PFOA, cioè l’acido perfluoroottanoico. Questo composto appartiene alla famiglia dei PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) ed è stato inserito di recente tra gli inquinanti organici persistenti (POP, persistent organic pollutants) regolati dalla convenzione di Stoccolma. Gli studi hanno infatti provato che il PFOA è tossico negli esseri viventi e che rimane nell’ambiente per lunghissimi periodi.

Dal 2016 inoltre, in seguito alla pubblicazione dei risultati di vari studi epidemiologici, il PFOA (e non il teflon quindi) è stato classificato dallo IARC (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) come “probabilmente cancerogeno”. Il teflon, in particolare quello destinato a prodotti come le padelle o i tessuti, in via precauzionale non viene più prodotto usando il PFOA, anche se nel prodotto finito (il teflon appunto) esso è rilevabile solo in tracce. Come ha spiegato AIRC, quindi, l’utilizzo delle pentole antiaderenti rimane sicuro e sono ancor più sicure quelle di fabbricazione più recente. Rimane però la raccomandazione di usare questi strumenti nel modo corretto: non surriscaldare, non graffiare il rivestimento e sostituire le padelle usurate.

Dal punto di vista della salute e dell’ambiente, il PFOA che deve preoccupare non è tanto quello eventualmente residuo in padelle antiaderenti datate, ma quello disperso dalle industrie che lo usano. Il film del 2019, dal titolo Cattive acque, racconta proprio la storia della celebre battaglia legale, cominciata alla fine degli anni Novanta, che portò la DuPont a un accordo per risarcire migliaia di abitanti danneggiati dal PFOA sversato nelle acque del fiume Ohio dallo stabilimento Washington Works in West Virginia. L’azienda, che aveva accettato di risarcire anche l’EPA (Environmental Protection Agency), non ha tuttavia mai ammesso di aver commesso un illecito.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
share