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Scoperte serendipiche – La storia del primo antidepressivo

L’iproniazide è un farmaco piuttosto antico, originariamente sviluppato per combattere la tubercolosi. Tuttavia, durante una sperimentazione clinica era stato osservato che migliorava nettamente l’umore dei pazienti che lo ricevevano, molti dei quali erano depressi oltre che tubercolotici. L’iproniazide divenne così anche il primo di una lunga serie di medicinali antidepressivi.

Si stima che circa un quarto della popolazione mondiale sia stata infettata dal batterio che causa la tubercolosi (Mycobacterium tuberculosis), una malattia che oggi uccide circa 1 milione e mezzo di persone all’anno nel mondo, soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito. Un secolo fa la situazione era di gran lunga peggiore, ed erano tantissimi gli scienziati impegnati nella ricerca di una cura. Proprio nell’ambito di questi studi fu individuato, oltre a una cura per la tubercolosi, anche il primo farmaco antidepressivo, una scoperta non del tutto casuale.

Dai razzi alla medicina

La tubercolosi affligge gli esseri umani da millenni. Nel tempo abbiamo imparato a curare i malati, ma agli inizi del XX secolo ancora non esistevano farmaci efficaci contro questa patologia. Tra i trattamenti in uso vi era un intervento chirurgico, la cosiddetta collassoterapia, che consisteva nel far, appunto, collassare uno dei polmoni malati al fine di metterlo per un po’ a riposo. All’epoca si pensava che questo intervento potesse far guarire i pazienti dalla malattia e che la crescita dei micobatteri nel tessuto polmonare sarebbe stata ostacolata dalla minore quantità di ossigeno assorbita dall’organismo per via del polmone collassato.

Solo nel 1944 venne messo a punto un antibiotico per combattere la malattia, la streptomicina, che però da sola non era sufficiente, dato che i micobatteri avevano presto sviluppato resistenza a questo unico rimedio efficace disponibile al tempo. Era dunque indispensabile trovare altri farmaci.

Tra le sostanze più studiate nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale vi era l’idrazina, una molecola molto versatile, a partire dalla quale si potevano sintetizzare numerosi nuovi composti. All’epoca ne erano disponibili enormi quantità a un ottimo prezzo, perché era stata usata come combustibile nei razzi V2 che l’esercito tedesco aveva lanciato sui Paesi nemici in Europa. Le scorte rimanenti erano state confiscate dagli Alleati dopo l’armistizio.

Proprio a partire dall’idrazina, nel 1951, tre aziende farmaceutiche (Hoffman-La Roche, Squibb e Bayer) elaborarono contemporaneamente un nuovo farmaco utile contro la tubercolosi, l’isoniazide. La molecola era, in realtà, già stata sintetizzata nel lontano 1912, ma all’epoca non ne era stata scoperta l’azione anti-tubercolare.

Tubercolosi e melancolia

A partire dall’idrazina, Hoffman-La Roche sintetizzò anche un altro composto simile all’isoniazide, chiamato iproniazide. Nel 1952 entrambi i farmaci furono sperimentati in un gruppo di pazienti con tubercolosi in cura al Sea View Hospital a Staten Island (New York). I medici che seguivano la sperimentazione notarono uno strano effetto collaterale, in particolare nei pazienti che avevano ricevuto iproniazide: stavano psicologicamente molto meglio. Spesso, infatti, la tubercolosi è associata alla depressione, o, come era spesso chiamata una volta, alla “melancolia”. Ne soffrivano anche i pazienti del Sea View reclutati nello studio per avere una tubercolosi allo stadio terminale.

Si racconta che la stampa (l’Associated Press o il New York Times, a seconda delle versioni), avuta notizia dei miracolosi effetti imprevisti del farmaco, avesse scritto che i pazienti “danzavano nei corridoi anche se avevano i buchi nei polmoni”. Qualcuno parlò addirittura di una fotografia che documentava il fatto. In realtà nessuno è finora riuscito a rintracciare né l’articolo, né la foto, ma sembra certo che all’epoca un medico avesse descritto la faccenda in termini simili, dando così origine a una sorta di leggenda.

Ci volle ancora qualche anno prima che l’iproniazide venisse studiato come farmaco in ambito psichiatrico. Per i medici il suo effetto “energizzante” era, all’inizio, un semplice “valore aggiunto”. Poi, però, si cominciò a capirne la causa, e cioè il fatto che l’iproniazide (e, in misura minore, anche l’isoniazide) inibisce le monoamino ossidasi, enzimi che degradano alcuni neurotrasmettitori come la serotonina. L’assunzione del farmaco, quindi, alza i livelli di questi neurotrasmettitori nel cervello, con un effetto positivo sull’umore.

Nel lessico scientifico fece così capolino il termine antidepressivo. Fino a quel momento questa malattia era stata trattata solamente con sostanze stimolanti, per esempio anfetamine. In seguito, nel 1957, l’efficacia dell’iproniazide come antidepressivo fu definitivamente provata dagli psichiatri con una sperimentazione con pazienti depressi e non tubercolotici.

Un nuovo tipo di farmaco

L’iproniazide come farmaco contro la tubercolosi venne presto abbandonato perché procurava maggiori effetti collaterali rispetto all’isoniazide, e anche come antidepressivo ebbe vita breve. Sì scoprì infatti che era altamente tossico per il fegato, e dagli anni Sessanta in avanti il suo utilizzo fu sempre molto limitato.

Ciononostante, si trattò di una scoperta fondamentale per la scienza medica. L’iproniazide mostrò per la prima volta che si poteva agire sulla chimica del cervello con un farmaco specifico, in modo da dare sollievo a chi soffriva di depressione. In altre parole, non solo era stato scoperto in modo casuale un nuovo farmaco che migliorava l’umore, ma finalmente c’era una solida teoria che spiegava con quale meccanismo funzionasse. Cominciò da lì una vera “caccia” che negli anni portò alla scoperta di diverse classi di antidepressivi e alle decine di farmaci che oggi conosciamo.

Si stima che il 5 per cento circa degli adulti nel mondo soffra di depressione. Quando questa viene correttamente diagnosticata, la terapia farmacologica con antidepressivi (unita a determinati tipi di psicoterapia) è considerata un trattamento efficace. Alcune di queste medicine compaiono nella lista dei medicinali essenziali dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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