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Virus: perché li usiamo in medicina?

Vaccini, nanotecnologie, terapia genica (e non solo): ecco come i virus possono essere trasformati da agenti patogeni in strumenti per prevenire o curare le malattie.

“C’è un virus che circola”. È un’espressione usata di frequente quando ci capita di avere la tosse, la nausea, il mal di pancia. Da qualche mese, per via della pandemia di Covid-19, abbiamo imparato tristemente cosa significhi quando in giro c’è un virus sconosciuto, la cui infezione non prevenibile né curabile è pericolosa per gli esseri umani. Qualcosa in più l’hanno imparato medici e scienziati che dall’inizio del contagio si sono dedicati a comprendere il funzionamento del virus Sars-Cov-2, nel tentativo di trovare vaccini e cure adeguate.

I virus però non sono sempre e soltanto una piaga distruttiva. Se adeguatamente sfruttati, possono essere nostri alleati in medicina. Nello sviluppo dei vaccini, per esempio, si utilizzano virus depotenziati. Nel campo della terapia genica si lavora per rendere innocuo un virus, mantenendo però la capacità di raggiungere il DNA di specifiche cellule umane con istruzioni genetiche in grado di modificarlo per curare l’organismo. Qualcosa di analogo si sta tentando con le nanotecnologie che cercano di mettere a punto terapie geniche con virus artificiali. Alcuni virus riconoscono i batteri, li neutralizzano e possono essere utili a contrastare la resistenza agli antibiotici; altri potrebbero riconoscere persino i tessuti cancerogeni e aiutarci nella lotta ai tumori.

Nel cuore dei vaccini

Nello sviluppo di un vaccino contro un virus, il virus stesso è spesso il materiale di partenza, ma le strategie utilizzate per lo sviluppo possono essere diverse a seconda del tipo di virus in questione. Nel caso delle ricerche su Sars-Cov-2, mentre stiamo scrivendo sono in corso sperimentazioni cliniche in esseri umani con 44 vaccini diversi, mentre per altri 154 gli studi sono ancora di laboratorio, a livello preclinico (dati: Organizzazione mondiale della sanità, aggiornati al 19 ottobre 2020). Alcuni gruppi di ricerca battono la strada del cosiddetto vaccino a subunità, che utilizza cioè soltanto una parte dell’agente patogeno (di solito una struttura superficiale, come una glicoproteina) per stimolare l’attivazione del sistema immunitario e fronteggiare così una futura minaccia.

Altri studi tentano invece di costruire il vaccino a partire da un virus intero inattivato, dunque incapace di moltiplicarsi e generare la malattia, oppure, in alternativa, da un virus attivo ma indebolito: in entrambi i casi gli anticorpi imparano a riconoscere la struttura del patogeno e dunque a intervenire.

Fra i vaccini candidati più innovativi per Sars-CoV-2 ci sono quelli a RNA, che puntano a far fabbricare alle cellule del nostro organismo gli antigeni virali contro i quali dovranno attivarsi le nostre difese.

Al di là dei tentativi di sviluppare vaccini contro Sars-CoV-2, oggi la ricerca sui vaccini sta esplorando tecniche ancora più sofisticate di ingegneria genetica. È il caso delle virus-like particles (VLPs), particelle ingegnerizzate simili a virus e in grado di trasportare informazioni genetiche nei tessuti – esattamente come farebbe un virus – che servono a produrre anticorpi.

Virus contro batteri

Uno dei fronti dove una speciale categoria di virus si è dimostrata nostra fedele alleata è la guerra contro (alcuni) tipi di batteri. A rendersi conto per primo di questa possibilità fu, nel lontano 1917, il medico franco-canadese Félix d’Herelle, al lavoro presso l’Istituto Pasteur di Parigi. Lo scienziato in particolare stava portando avanti alcune indagini su pazienti affetti da problemi del tratto intestinale causati da un batterio e, analizzandone le feci, individuò aree dove il batterio non proliferava. Scoprì che il batterio era stato eliminato da un virus, che venne poi definito virus batterico e battezzato con il nome di batteriofago (o fago), letteralmente “mangiatore di batteri (dal greco phágos, mangiatore).

Era l’avvento delle terapie fagiche, che consistono nell’inoculare nel corpo del paziente il batteriofago che, piuttosto che prendersela con le cellule dell’ospite, agisce selettivamente sul batterio, dissolvendone per esempio la parete esterna e debellandolo. In seguito le scoperte di d’Herelle vennero presto estese al trattamento di malattie come la dissenteria o il colera. Tuttavia, da allora le terapie fagiche non sono ancora entrate comunemente nella pratica clinica, nonostante i progressi biotecnologici, perché incontrano una serie di importanti ostacoli. Innanzitutto, la necessaria elevata specificità della terapia fagica verso il ceppo batterico implica che, data l’enorme varietà di batteri nel mondo, immense banche biologiche di fagi diversi debbano essere mantenute e aggiornate regolarmente. Inoltre sia i batteri sia i fagi possono andare incontro a mutazioni prima o durante il trattamento, impedendo una eradicazione completa. Le autorità regolatorie possono infine avere difficoltà ad approvare trattamenti biologici che si modificano nel tempo, come questi.

Possibili terapie a base di virus

L’inizio, negli anni Quaranta del Novecento, dell’uso dell’antibiotico penicillina, più facile da usare e da produrre, ha di fatto portato al superamento delle problematiche terapie fagiche. Oggi, tuttavia, pur con i loro limiti, le terapie fagiche sono tornate in auge nella ricerca, in seguito all’aumento dei batteri resistenti alle terapie antibiotiche. In una ricerca sperimentale dell’Università di Yale i cui risultati sono stati pubblicati nel 2016 su Scientific reports, per esempio, il batteriofago si è dimostrato in grado di contrastare la diffusione del batterio Pseudomonas aeruginosa, potenzialmente letale per persone con un sistema immunitario compromesso.

Inoltre, negli ultimi tempi, la ricerca sugli agenti patogeni combinata con l’ingegneria genetica ha consentito di sfruttare alcune caratteristiche dei virus per combattere i tumori. L’anno scorso, per esempio, i risultati di una ricerca sperimentale dell’Università del Surrey, pubblicati su Clinical Cancer Research, hanno mostrato i benefici di un ceppo del virus del comunissimo raffreddore, CVA21, contro il tumore alla vescica. Il virus CVA21 era infatti in grado di riconoscere soltanto le cellule cancerogene e attaccarle per replicarsi, causandone la rottura e dunque la distruzione. Le altre cellule restavano intatte. Inoltre, le nuove particelle virali continuavano ad attaccare soltanto i tessuti tumorali. Infine, l’infiammazione causata dal virus nell’area del tumore stimolava, per così dire, l’interesse degli antigeni, che riuscivano dunque a individuare le cellule cancerogene per poi attaccarle.

Il fenomeno era già stato osservato, l’anno prima, in una ricerca dell’Università della California di San Francisco, i cui risultati erano stati pubblicati sulla rivista Cancer Research. A partire da un vettore virale i ricercatori hanno sviluppato “pexa-vec”, un virus ingegnerizzato capace di riconoscere soltanto le cellule tumorali. Sorprendentemente il virus non solo era in grado di attaccare con efficacia il tumore, ma, soprattutto, innescava una forte risposta immunitaria. Solo il 5 per cento delle cellule tumorali venivano così uccise dal virus, mentre il resto era debellato dal nostro sistema immunitario. Una vera e propria cooperazione che lascia sperare sulle ricerche mediche in materia di virus.

Giancarlo Cinini
Dopo aver studiato lettere e comunicazione della scienza ed essersi formato scrivendo per Galileo, Wired Italia e La Repubblica, oggi collabora con Il Tascabile e insegna lettere in un istituto superiore.
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