Non solo microbi e piccoli organismi: nei laboratori della Stazione spaziale internazionale si studiano (e si coltivano) anche le piante. Vediamo insieme perché.
Tra i passeggeri della Stazione spaziale internazionale (Iss), il grosso laboratorio orbitante a circa 400 chilometri di distanza dalla Terra, non ci sono solo esseri umani e microbi (in qualche recesso o in coltura per esperimenti), bensì anche piante: lattuga, peperoni, senape, cavolo, zinnia, canapa, vite, caffè sono arrivati e vengono coltivati lassù. Certo, non si tratta di un grande orto, ma negli anni, a bordo della Iss, accanto alla sperimentazione sui microrganismi, sono stati portati avanti studi in condizioni di microgravità su svariate specie vegetali.
Gli obiettivi sono diversi: capire come le piante si modifichino in orbita, selezionare per scopi terrestri varietà capaci di resistere in situazioni del tutto fuori dalla norma, verificare le difficoltà di una micro-coltivazione di specie commestibili a bordo, in previsione di permanenze in orbita sempre più prolungate o di missioni verso uno spazio sempre più distante.
Orto in orbita
Oggi con le scorte alimentari delle missioni spaziali si cerca di fornire ad astronauti e cosmonauti tutto ciò di cui il loro corpo ha bisogno. Il cibo tuttavia è spesso liofilizzato o disidratato e, se le missioni del futuro spingeranno sempre più lontano personale in carne e ossa, rifornire le astronavi sarà un compito ben più arduo. Produrre frutta e verdura fresca a “chilometro zero” potrebbe essere la soluzione. Con questi obiettivi è nato il progetto Vegetable Production System (o Veggie) in corso sulla Stazione spaziale internazionale.
Nel piccolo spazio studiato appositamente dagli scienziati della Nasa, le piante sono in grado di crescere nonostante le condizioni di microgravità. In queste particolari condizioni, infatti, in un normale vaso, acqua, ossigeno e altri nutrienti si distribuirebbero male attraverso il terreno, minacciando la sopravvivenza della pianta. Nell’impianto di Veggie, invece, ciascuna pianta viene fatta crescere in una sorta di “cuscino” che ospita terriccio alimentato da acqua, ossigeno e fertilizzanti, distribuiti in modo opportuno attorno alle radici. Quando la piccola pianta fa capolino dal cuscino, riceve la luce da un sistema a LED impostato per produrre lo spettro luminoso più adatto.
Le dimensioni dell’“orto spaziale” sono ancora molto limitate: non superano infatti quelle di un trolley e possono accogliere solo sei colture per volta. Tuttavia, finora sono state coltivate con successo diverse varietà di lattuga, verdure in foglia e cavolo, oltre alla zinnia, che è persino fiorita in orbita. Gli astronauti, riporta la Nasa, sono riusciti a consumare la lattuga e il cavolo riccio che hanno coltivato (conditi con aceto balsamico). Inoltre, in un recente esperimento, il cavolo cinese è riuscito a crescere in orbita così a lungo da gettare le prime infiorescenze, che gli astronauti hanno impollinato con un pennello sottile.
Sulla Iss si trova poi un ulteriore apparato di coltivazione, il cosiddetto Advanced Plant Habitat (Aph). Qui le piante si trovano all’interno di una camera con un suolo di argilla porosa dotata di un sistema di rilascio controllato dei nutrienti e (come in Veggie) un sistema di luci LED. Nel caso di questo esperimento, tutto è automatizzato, grazie a telecamere e 180 sensori che permettono a un gruppo del Kennedy Space Center della Nasa di controllare e modificare da Terra le condizioni di umidità e temperatura, per esempio, e di monitorare la crescita delle piante.
A luglio 2021 gli scienziati dell’agenzia spaziale americana hanno spedito sulla Stazione spaziale 48 semi di peperoni, degli ibridi selezionati dall’Università del New Mexico, da piantare nella camera. L’esperimento si chiama Plant Habitat-04 e durerà 100-120 giorni, fino al momento del raccolto. Perché proprio i peperoni? Perché sono una solida fonte di vitamina C, la cui carenza è sempre stata un problema per gli astronauti. Si tratta inoltre di una pianta autoimpollinante, cosa che rende più facile la crescita dei frutti. Così, mentre una parte dei peperoni tornerà a Terra per le analisi, l’altra potrà essere felicemente consumata dai cosmonauti.
Grano e infestanti
A partire dal 2018 l’Advanced Plant Habitat della Iss ha ospitato diversi tipi di colture. Protagonisti assoluti delle ricerche sono stati finora la pianta erbacea Arabidopsis thaliana (o arabetta comune) e una varietà di grano (di cui a questo link è possibile vedere in un video un “timelapse” della crescita dentro la camera). Queste piante sono state coltivate non per ragioni alimentari ma per capire come mutino geneticamente o come cambi il loro metabolismo in reazione alla microgravità. In particolare, l’interesse dei ricercatori si è concentrato sulla componente chiamata lignina (che costituisce, per così dire, il sistema osseo delle piante e conferisce loro il carattere legnoso).
Una volta giunto il tempo del raccolto, gli astronauti hanno colto le piante e le hanno surgelate per poi spedirle a Terra. Dopo averle analizzate, gli scienziati hanno osservato che l’arabetta comune sembra subire uno stress da ossidazione. Reazioni chimiche che lavorano con l’ossigeno potrebbero diventare incontrollate all’interno delle cellule, danneggiando i mitocondri. E anche il sistema di difesa della pianta sembra uscirne indebolito: per testare questo sospetto e comprenderne le ragioni, i ricercatori a bordo stimoleranno la reazione delle piante interrompendo e congelando con un fissativo chimico il processo biologico, per provare a “coglierlo sul fatto”.
Vino spaziale
Agli inizi di quest’anno sono tornati a Terra tralci di vite Merlot e Cabernet Sauvignon, cresciuti nelle condizioni uniche della Stazione spaziale. A spedirle lassù (assieme a 12 bottiglie di Chateau Pétrus, da invecchiare a bordo) era stata qualche tempo prima una società privata francese, la Space Cargo Unlimited. La vite, cresciuta per dieci mesi sulla Iss, è tornata alla base per essere reidratata, reimpiantata e osservata, alla ricerca di eventuali alterazioni del metabolismo che possano averne modificato la qualità, il colore o il sapore. L’intento della società è cercare mutazioni che rendano le piante più adattabili a condizioni estreme o comunque insolite rispetto all’habitat della vite.