Mentre le temperature globali aumentano e si fanno più frequenti gli eventi estremi, tra cui i vasti incendi, le piante (e intere foreste) stanno “migrando” verso luoghi più ospitali.
Sì, persino gli alberi “migrano”. In un mondo più caldo e con eventi sempre più estremi, come forti siccità e vasti incendi che aumentano di intensità, estensione e durata, anche le piante provano ad adattarsi ai cambiamenti. Come? Spostandosi progressivamente verso latitudini più a Nord, per esempio, o verso località a quote più alte. Pena, di fatto, l’estinzione.
Gli scienziati da tempo stanno monitorando lo stato di alberi e foreste, cercando di capire come gli ecosistemi stanno rispondendo ai climi in evoluzione a cui stiamo andando incontro. Ciò che sappiamo finora è che i precedenti periodi di rapido riscaldamento del nostro pianeta, tra cui quelli che si sono verificati circa 56 milioni di anni fa, hanno drasticamente modificato e ridistribuito la flora del pianeta. Da questo possiamo quindi aspettarci un nuovo riassetto della flora mondiale, tanto più marcato se le emissioni di gas serra non saranno ridotte drasticamente.
Guardare al passato per capire il futuro
Per capire cosa ci aspetta in futuro i ricercatori si avvalgono delle testimonianze del passato: in primo luogo attraverso i fossili, una sorta di “fotografia” che ci riporta indietro di migliaia, se non milioni, di anni. Si è preso in esame in particolare l’Ultimo massimo glaciale sperimentato dal pianeta, ovvero il periodo durante il quale si è avuta la massima espansione dei ghiacci durante l’ultima glaciazione e in cui le temperature globali si sono modificate di 4-7°C. Esaminando i cambiamenti climatici e nella vegetazione documentati in quasi 600 siti in tutto il mondo, gli scienziati hanno determinato in modo puntuale quali siano state allora le risposte della flora.
I risultati indicano che gli ecosistemi terrestri sono altamente sensibili ai cambiamenti climatici e suggeriscono che, senza importanti riduzioni delle emissioni di gas serra nell’atmosfera, essi sono a rischio di importanti trasformazioni. Le conseguenze possono essere l’interruzione dei servizi ecosistemici, ovvero dei benefici forniti dalla natura al genere umano, e inoltre importanti impatti sulla biodiversità.
Ciò che più preoccupa i ricercatori oggi è la rapidità della risposta ai cambiamenti in corso, che può avvenire in tempi relativamente brevi e per intere specie se non addirittura biomi (vaste regioni del mondo caratterizzate da forme dominanti di piante e clima). Un importante rapporto internazionale, pubblicato qualche mese fa sulla rivista Science, mostra come negli ultimi 18.000 anni la vegetazione globale è stata trasformata. Prima hanno reagito ai cambiamenti climatici seguiti all’ultima deglaciazione e più tardi all’aumento delle pressioni antropiche, con l’avvento, per esempio, dell’agricoltura. Analizzando i pollini fossili, in particolare, gli scienziati hanno potuto rilevare un’accelerazione a livello globale nei tassi di cambiamento della composizione della vegetazione, a partire da 4,6 fino 2,9 migliaia di anni fa, proprio mentre la nostra specie compiva un salto di qualità a livello sociale e di comunità.
Cosa sta accadendo oggi
Interi ecosistemi si stanno spostando, o addirittura scomparendo. Si prevede per esempio che le foreste dell’Alaska, dominate dalle conifere sempreverdi, si stiano già modificando a favore di alberi di latifoglie decidue. Un evento incoraggiato, purtroppo, anche dai numerosi e vasti incendi che hanno colpito per lunghi periodi la regione negli ultimi anni. L’ecosistema cambia infatti in maniera estremamente repentina, anche a causa anche di eventi traumatici come possono essere i grandi incendi. In questi casi può accadere che alcune specie che si sono adattate a temperature più elevate o a climi più secchi prendano il sopravvento.
Si prevede che le regioni polari, e in particolare l’Artico, saranno i territori più colpiti a livello globale. Questo a causa di un meccanismo di feedback, denominato amplificazione artica: è il fenomeno per il quale l’Artico si sta scaldando più rapidamente rispetto al resto del pianeta. Le temperature medie globali potrebbero aumentare mediamente di 4°C entro il 2100, ma alcuni studi recenti prevedono aumenti più elevati per l’Artico (anche se si tratta di stime in continua revisione).
La risposta della flora italiana al cambiamento climatico
Anche la nostra penisola dovrà fare i conti con un aumento delle temperature, che secondo i diversi modelli climatici potrebbe raggiungere i 2°C medi nel periodo 2021-2050 (rispetto al periodo 1981-2010). Tra gli effetti attesi, anche quelli sulla flora del nostro Paese. Secondo una recente valutazione complessiva, i ricercatori mostrano che il riscaldamento climatico potrebbe far migliorare complessivamente la capacità di crescita delle piante in Italia. Tuttavia l’entità della crescita varierà a seconda delle zone climatiche, con effetti più forti nelle regioni fredde della zona climatica alpina.
Un’ulteriore conferma arriva dai risultati di un corposo studio condotto dai ricercatori delle Università di Bolzano, Camerino e Ferrara. Anche un moderato incremento della temperatura media sarà in grado di influenzare i processi fisiologici delle piante, anticipando per esempio i periodi di fioritura o variando i ritmi di crescita. Per quanto riguarda gli ambienti alto-montani, i ricercatori stanno già osservando cambiamenti nella composizione e struttura delle comunità vegetali, fino all’osservazione dello spostamento di specie verso quote più elevate.
Attraverso quali meccanismi le specie si adattano a un clima più variabile? Interessante è il caso di alcuni esemplari di faggio, tra gli alberi forestali più diffusi in Italia, che tra il 2016 e il 2017 si sono trovati ad affrontare una forte gelata primaverile e una siccità nell’estate successiva. Una serie di ricerche condotte da ricercatori italiani ha permesso di scoprire parte dei meccanismi di resilienza e di adattamento di questa specie. Gli alberi hanno dovuto utilizzare gran parte delle riserve immagazzinate per sopravvivere alla gelata tardiva, dopodiché hanno impegnato molte delle energie prodotte con la fotosintesi per rimpiazzare le riserve utilizzate, causando una riduzione dell’85 per cento della crescita annuale del tronco, con ripercussioni sulla capacità dei faggi stessi di assorbire la CO2.
Lo studio degli eventi passati ci mostra anche che quando le temperature scendono, tornando ai livelli precedenti, anche molte delle specie botaniche possono ritornare a colonizzare i luoghi del passato, dimostrando ancora una volta una grande capacità di adattamento. Secondo le previsioni, se riusciremo a ridurre le emissioni di CO2 entro metà del secolo, sarà possibile, se non invertire, almeno rallentare le maggiori migrazioni.