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Il filo rosso tra l’inquinamento dell’aria e la demenza

L’esposizione al particolato atmosferico derivante da emissioni industriali, traffico, incendi e non solo è associata all’incidenza di forme di demenza, con contributi di diversa entità da parte di ciascuna fonte. Sono questi i risultati di un’ampia indagine, condotta negli Stati Uniti sulla popolazione anziana, che comprende anche i possibili interventi di salute pubblica per una maggiore prevenzione.

Una bassa qualità dell’aria che respiriamo è legata anche al rischio di sviluppare forme di demenza, oltre a una già nota lista di altre malattie importanti tra cui problemi polmonari, cardiocircolatori e cancro. Le persone che da questo punto di vista corrono un rischio maggiore rispetto ad altre sono quelle che vivono in zone con livelli elevati da inquinamento atmosferico caratterizzato, in particolare, dal particolato fine o PM2.5. Si tratta dell’insieme delle particelle sospese in aria che non superano i 2,5 micrometri di diametro (circa un trentesimo dello spessore di un capello, per intenderci). Il traffico, gli impianti di riscaldamento, le centrali a carbone, gli incendi (qui un nostro recente approfondimento sul tema) e svariati processi produttivi sono sorgenti di questo tipo di particolato, che per le sue piccole dimensioni riesce a penetrare a fondo nel nostro sistema respiratorio e contribuire, con meccanismi ancora in parte sconosciuti, a portare diversi tipi di danno.

Negli ultimi anni sono state condotte diverse indagini sulle conseguenze dell’esposizione ad aria inquinata sulla salute cognitiva. Nella maggior parte degli studi si era però considerato il particolato fine nel suo complesso, senza tenere conto delle diverse fonti da cui può essere prodotto. Di conseguenza, non era ancora stato chiarito se particelle di diversa origine producessero effetti diversi sul cervello. Lo hanno indagato gli autori di una ricerca sostenuta dai National Institutes of Health (NIH) e pubblicata ad agosto 2023 sulla rivista JAMA Internal Medicine.

Un gruppo di epidemiologi ha indagato sull’associazione fra nuovi casi di demenza ed esposizione a lungo termine al PM2.5, considerando sia il totale del particolato sia le diverse fonti di emissione. E sì, alcune di esse sono risultate più fortemente associate alla demenza di altre.

Un pericolo per la salute cognitiva che conosciamo da poco

Fino a qualche tempo fa i fattori di rischio noti per la demenza comprendevano ipertensione, disturbi dell’udito, fumo, obesità, depressione, inattività fisica, diabete, un basso livello d’istruzione e ridotti contatti sociali. Nel 2020 un gruppo di esperti internazionali, riuniti nella Lancet Commission per la prevenzione, l’intervento e la cura della demenza, ha pubblicato un aggiornamento del rapporto precedente, del 2017. Tra i fattori di rischio modificabili inseriti per la prima volta nel nuovo rapporto, in ragione di nuovi dati convincenti, vi era l’inquinamento atmosferico insieme al consumo eccessivo di alcol e alle lesioni cerebrali traumatiche. Sarà interessante osservare se nel prossimo rapporto entrerà anche l’infezione da virus Herpes zoster, che sta emergendo tra i fattori di rischio più importanti per diversi tipi di demenza.

Per quanto riguarda gli effetti dell’aria inquinata, nel rapporto gli esperti hanno in particolare ripreso i risultati di un ampio studio statunitense, i cui risultati, pubblicati su Jama nel 2019, avevano dimostrato un’incidenza maggiore di demenza e mortalità associata alle esposizioni croniche a PM2.5 superiori ai limiti locali. I dati più preoccupanti riguardavano specialmente comunità svantaggiate dal punto di vista socio-economico, tra cui quelle afroamericane, che verosimilmente abitano e lavorano dove l’inquinamento è maggiore.

Anche l’Environmental Protection Agency (EPA), l’agenzia federale statunitense incaricata della protezione della salute umana e dell’ambiente, nel 2019 ha pubblicato un rapporto sugli effetti sulla salute dei principali inquinanti ambientali. Il documento, sempre in corso di aggiornamento, riporta importanti considerazioni sull’esposizione a lungo termine al PM2.5 e sui potenziali effetti sul sistema nervoso. Dal rapporto emerge che la letteratura scientifica sul tema si è notevolmente ampliata negli ultimi anni. In particolare, sono aumentati gli studi tossicologici e quelli epidemiologici. E le prove a sostegno degli effetti nocivi del particolato fine sulle capacità cognitive e sullo sviluppo di demenza sono sempre più consistenti.

Diverse emissioni, diverso rischio

Ma il progresso maggiore è stato compiuto dagli epidemiologi nello studio sostenuto dall’NIH e pubblicato su JAMA Internal Medicine citato in apertura. Gli autori hanno indagato se e in che modo la demenza fosse associata all’esposizione a lungo termine a PM2.5 proveniente da particolari fonti di emissione, ciascuna considerata in modo indipendente l’una dall’altra. Gli scienziati hanno utilizzato i dati di 27.857 adulti dai 50 anni in su già arruolati nel cosiddetto Health and Retirement Study, un campione rappresentativo a livello nazionale di anziani negli Stati Uniti. Dal 1998 al 2016, i partecipanti sono stati intervistati una volta ogni due anni su molti aspetti legati all’invecchiamento in buona salute, comprese le capacità cognitive, la salute generale e i comportamenti salutari.

Le informazioni raccolte sono state poi messe in relazione con le misurazioni della qualità dell’aria negli Stati Uniti, tenendo in considerazione centinaia di variabili geografiche, tra cui la presenza di trasporti e di industrie, l’utilizzo del suolo, le caratteristiche della vegetazione circostante e così via. Ne è emersa una sorta di mappa dove per ciascuna area di residenza dei partecipanti era possibile valutare l’impatto di 9 diverse fonti di emissione: agricoltura, traffico stradale, traffico non stradale, combustione di carbone per la produzione di energia, altri metodi di produzione di energia, combustione di carbone per l’industria, altre industrie, incendi e polvere portata dal vento.

I risultati hanno mostrato che 4.105 partecipanti, corrispondenti a circa il 15 per cento della popolazione esaminata, hanno sviluppato una forma di demenza nell’arco del decennio circa in cui sono stati seguiti. L’incidenza maggiore ha riguardato persone non bianche, meno abbienti, con un più basso livello di istruzione e che abitano in zone con livelli di PM2.5 più elevati. Questi risultati confermavano quanto già rilevato in ricerche precedenti. Per quanto riguarda la relazione tra tassi di demenza e singole fonti di emissione, il particolato fine proveniente dall’agricoltura e quello generato dagli incendi sono risultati fortemente associati a tassi maggiori di demenza. A questi seguivano il PM2.5 prodotto dal traffico e quello provocato dalla combustione del carbone.

Logiche ancora da capire

Trattandosi di uno studio epidemiologico, ha potuto rilevare una correlazione tra inquinamento atmosferico e demenza, ma ciò non basta a dimostrare un nesso di causa ed effetto tra i due fenomeni. Inoltre, gli eventi cellulari che possono innescare la risposta patologica del cervello e collegare la demenza al particolato fine non sono ancora ben compresi. Saranno pertanto necessari nuovi studi, in grado di produrre per esempio dati molecolari e di neuroimaging per venirne a capo. Tuttavia, sono stati ipotizzati alcuni meccanismi plausibili.

Ricerche condotte con animali di laboratorio suggeriscono alcuni effetti del particolato disperso in aria sulla genesi di malattie cerebro- e cardiovascolari e sulla deposizione di precursori delle placche cosiddette amiloidi che si rilevano nella malattia di Alzheimer. Ci sono poi evidenze che questo tipo di inquinanti possa influenzare la funzione cognitiva attraverso la neuroinfiammazione, che può essere il risultato di un’infiammazione sistemica o dello stress ossidativo conseguente all’irritazione dei polmoni. È interessante osservare che queste ricerche hanno aspetti in comune con gli importanti studi, coordinati dal medico ricercatore Charles Swanton alla University College London sul nesso tra inquinamento dell’aria e tumore del polmone. Secondo i risultati ottenuti da Swanton e colleghi, un ambiente polmonare cronicamente infiammato a causa di elevati livelli di PM2.5 incoraggerebbe la proliferazione di cellule con mutazioni cancerogene. A livelli di inquinamento dell’aria più bassi, e quindi di infiammazione più moderata, tali cellule non darebbero origine a un cancro, pur in presenza di mutazioni.

Tornando allo sviluppo della demenza, è stato peraltro proposto che il particolato fine, spesso composto da particelle rivestite di sostanze tossiche, possa raggiungere il cervello attraverso il bulbo olfattivo e persino attraversare la barriera ematoencefalica. È questa la membrana che controlla quali sostanze possono penetrare nel sistema nervoso centrale, e che protegge dalla morte delle cellule neuronali e da molte malattie cerebrali, tra cui la demenza.

Nuovi spazi di manovra

Gli autori stessi dell’articolo pubblicato su JAMA Internal Medicine hanno dichiarato che sono necessarie ulteriori ricerche per confermare e approfondire le relazioni osservate fra casi di demenza e particolato fine proveniente dalle più rilevanti fonti di emissione. Ma hanno suggerito alcuni interventi che, diminuendo l’inquinamento atmosferico, potrebbero ridurre il rischio di sviluppare la malattia. A differenza di molti altri fattori di rischio comuni per la demenza, infatti, l’esposizione all’inquinamento atmosferico può essere modificata per i grandi gruppi di popolazione esposti e quindi possono diventare uno strumento utile alla prevenzione su larga scala attraverso politiche sanitarie e provvedimenti mirati.

La prospettiva è notevole se si considera che oggi nel mondo oltre 55 milioni di persone convivono con una delle diverse forme di demenza che colpiscono gli anziani. Con il rapido invecchiamento della popolazione globale e l’aumento dell’aspettativa di vita i casi sono destinati a crescere. Pur non essendo una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento, la demenza è infatti molto più frequente con l’avanzare dell’età: colpisce circa un terzo delle persone dagli 85 anni in su. Man mano che avanza, la malattia influisce fortemente sulla qualità della vita dei pazienti, dei familiari e di chi se ne prende cura.

Alice Pace
Giornalista scientifica freelance specializzata in salute e tecnologia, anche grazie a una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche e un dottorato in nanotecnologie applicate alla medicina. Si è formata grazie a un master in giornalismo scientifico presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste e una borsa di studio presso la Harvard Medical School di Boston. Su Instagram e su Twitter è @helixpis.
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