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La dose che fa il veleno

La dose può fare la differenza tra una cura e un veleno. Ogni sostanza può in principio avere effetti positivi, negativi o neutri a seconda della quantità. Alcune sostanze notoriamente pericolose devono essere assunte in dosi elevate per risultare tossiche, mentre in dosi inferiori possono avere effetti curativi. Mentre alcune sostanze percepite come innocue o benefiche, come l’acqua o le vitamine, possono essere persino letali se assunte in dosi eccessive.

 

Cosa penseresti se ti arrivasse a casa una lettera, firmata dall’autorità sanitaria locale, che ti invita a partecipare a un’indagine epidemiologica per valutare i potenziali danni causati alla tua salute da una sostanza presente nell’ambiente alla quale potresti essere stato esposto per anni senza saperlo? La vicenda non è soltanto ipotetica, ma è un metodo comunemente utilizzato da epidemiologi e tossicologi per appurare se alcuni indizi, di danni da inquinanti nell’ambiente, hanno effettivamente provocato problemi di salute in una determinata popolazione. Una lettera simile è stata, per esempio, recapitata qualche anno fa ad alcuni abitanti del Veneto. La lettera informava che l’acqua della zona era stata in precedenza contaminata dai PFAS, le cosiddette sostanze perfluoroalchiliche. Si tratta di una famiglia di composti chimici, utilizzati da numerose industrie per rendere oggetti (come pentole antiaderenti, tappeti, microfoni dei cellulari) e tessuti (come il goretex) impermeabili all’acqua e resistenti al grasso.

L’emozione più comune tra i destinatari della lettera è stata la paura. All’epoca i PFAS erano sostanze poco conosciute dalla popolazione generale e soprattutto, trattandosi di composti artificiali, le persone tendevano a dare per scontato che dovessero causare inevitabilmente gravi danni alla salute. Così l’immediata reazione “di pancia” fu quella di smettere di bere l’acqua del rubinetto e comprare solo acqua in bottiglia, nonostante nella lettera fosse scritto che i livelli di PFAS nell’acqua potabile non erano più preoccupanti.

Ma sono molti gli aspetti da considerare quando si parla di composti tossici o pericolosi. O anche di sostanze considerate benefiche.

 

Tutto è chimica e la fonte non fa il veleno

Basta leggere un’etichetta dell’acqua in bottiglia per scoprire che è ricca di moltissime sostanze, tra cui cloro, fluoro, litio, solfati e nitriti, ma in genere li beviamo tranquillamente. Infatti, nonostante parecchi composti chimici artificiali abbiano migliorato le condizioni di vita in molti ambiti, c’è talvolta la tendenza a pensare che siano più pericolosi per la salute rispetto alle sostanze naturali. È stato addirittura coniato un termine, chemofobia, per indicare la diffidenza nei confronti della chimica e di tutto ciò che la riguarda. Proprio per questa diffidenza, le sostanze di sintesi sono chiamate impropriamente “chimiche” con una connotazione negativa, come a sottintendere che quelle presenti in natura non siano anch’esse fatte di elementi chimici e per questo non siano pericolose. Perché se esiste in natura non può far male, giusto? Eppure, sono diverse le sostanze naturali che si sono dimostrate altamente pericolose o letali.

Un esempio è l’arsenico, un metalloide presente in natura in diverse forme ed è stato uno dei veleni più utilizzati per esempio nel Rinascimento. Con la sostanza si sono uccisi rivali e parenti considerati troppo attaccati alle loro ricchezze, al punto che l’arsenico si è meritato l’appellativo di “polvere degli eredi”. Un altro esempio è la cicuta, una bellissima pianta erbacea con fiorellini bianchi che è stata utilizzata a lungo nell’Antica Grecia per uccidere i condannati a morte. La vittima più nota di avvelenamento da cicuta è il filosofo greco Socrate.

Un altro composto temibile è il metanolo, un alcol che può prodursi, come l’etanolo, nel naturale processo di fermentazione per esempio dell’uva. A parità di dose assunta, il metanolo ha però effetti tossici più gravi rispetto all’etanolo, dato che può causare cecità permanente e addirittura la morte. In Italia è diventato tristemente famoso nel 1986, dopo che alcuni produttori lo avevano utilizzato per aumentare artificialmente la gradazione del vino da tavola in modo più economico rispetto all’aggiunta del più costoso e meno tossico etanolo. Questa intossicazione riguardò oltre 150 persone, comportando la morte di oltre 19.

Arsenico, cicuta, metanolo sono tutte sostanze che si trovano in natura. Dunque la pericolosità di una sostanza non si può stabilire a partire dalla fonte, naturale o artificiale. Quali altri criteri dobbiamo utilizzare per stabilire l’eventuale pericolosità di una sostanza?

 

“È la dose che fa il veleno”

Il medico e alchimista svizzero Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, conosciuto con il suo nome d’arte Paracelso, già nel XVI secolo aveva teorizzato un concetto chiave della scienza per studiare i veleni e per questo è da molti considerato il “padre” della tossicologia. La sua citazione più nota è infatti: “tutte le cose sono tossiche, è la dose a fare il veleno”, a indicare che ogni sostanza, anche la più insospettabile come l’acqua, può potenzialmente causare problemi alla salute degli esseri viventi. La pericolosità dipende, però, dalla dose necessaria affinché i danni si manifestino.

Ci sono quindi composti molto pericolosi, perché possono essere letali anche se usati in dosi minime, e altri che invece sono considerati sostanzialmente innocui perché la dose necessaria a causare un danno all’organismo è talmente elevata da essere difficilmente raggiungibile nella vita quotidiana. Così, per esempio, bere 6 litri d’acqua in sole 3 ore può portare a un’intossicazione mortale, dovuta a un’eccessiva diluizione del sangue e a un rigonfiamento del cervello. Analogamente, può essere rischioso assumere troppe vitamine, composti ritenuti generalmente salutari.

Capire come e quanto una sostanza può essere pericolosa è il compito dei tossicologi. Con specifici test di laboratorio, chiamati bioassay, valutano le risposte di un organismo a diverse dosi di una determinata sostanza in esame. Lo scopo è definire il livello soglia oltre il quale la sostanza diventa eventualmente dannosa per la salute di un essere vivente e identificare gli effetti tossici che si sviluppano a ogni dose al di sopra di tale soglia. Questi possono includere difetti della crescita, della riproduzione, la formazione di tumori, lo sviluppo di sintomi e altre malattie, fino alla morte.

I risultati ottenuti in un bioassay restituiscono un valore di tossicità a breve termine, indicato con la sigla LD50. Con questa sigla, in cui LD sta per “lethal dose”, si indica la quantità della sostanza in esame in grado di uccidere la metà degli animali di laboratorio trattati durante un periodo di 14 giorni. Inoltre, permettono di individuare la cosiddetta dose di riferimento (BMD, dall’inglese “benchmark dose”), il massimo dosaggio al quale non si osservano effetti avversi (NOAEL, “No Observed Adverse Effect Level”) e il dosaggio tossico più basso (LOAEL, “Lowest Observed Effect Level”). Tutti elementi importanti per valutare quanto è rischiosa l’esposizione a una sostanza. In alcuni casi, il rischio di esporsi a una dose tossica di una sostanza può essere accettato in virtù di un altro, diverso effetto positivo che quella dose può determinare e che, per il vantaggio che offre, supera il primo rischio.

 

Quando un veleno diventa benefico

Già Paracelso aveva osservato che alcune sostanze, considerate comunemente veleni, a dosi minori producevano degli effetti curativi. Oggi sappiamo che aveva ragione: alcuni composti sono, infatti, non solo neutri ma addirittura benefici per la salute se utilizzati sotto la dose soglia di pericolosità. Ne sono un esempio lo zucchero, il sale e le vitamine. Non solo, ma gli effetti tossici di alcune sostanze possono essere sfruttati, a beneficio dei pazienti con alcune malattie, per produrre farmaci curativi.

Tra gli esempi più noti c’è il già citato arsenico, che nel suo composto più conosciuto, ovvero il triossido di arsenico, trova impiego come farmaco antitumorale per la leucemia promielocitica acuta, un tumore che colpisce le cellule del midollo osseo (che sono i precursori delle cellule mature del sangue). Il triossido di arsenico, con un meccanismo ancora non del tutto chiarito, danneggia il DNA di tali cellule tumorali, inducendole a “suicidarsi” andando incontro alla cosiddetta apoptosi.

Come l’arsenico, anche il gas mostarda, un’arma chimica che ha causato migliaia di morti durante la Prima Guerra Mondiale, è stato sfruttato per le sue proprietà antitumorali, diventando uno dei primissimi farmaci chemioterapici. Ancora oggi sono in uso clinico alcune forme derivate da questo composto, meno tossiche dell’originale.

Per non parlare di uno dei più comuni farmaci per il trattamento dei disturbi della coagulazione, la warfarina, scoperta come “veleno delle mucche” e poi a lungo utilizzata come veleno per topi prima di diventare un salvavita per gli esseri umani.

 

Altri elementi del rischio

Con l’evoluzione della tossicologia, al concetto elaborato da Paracelso si sono aggiunti altri elementi che aiutano a caratterizzare la pericolosità di una sostanza. Oltre a valutare la dose, sono importanti anche il tipo di esposizione, se acuta o cronica. Inoltre, va considerata la capacità dell’organismo di eliminare, trasformare o accumulare la sostanza e i suoi metaboliti, per esempio nei tessuti di fegato, nei reni o nel sangue. Esistono poi componenti biologiche, individuali o meno, che possono modificare la sensibilità a una sostanza: alcune categorie di persone, come i bambini e le donne incinte, possono essere particolarmente sensibili ad alcuni effetti negativi. Esistono infine varianti geniche più o meno conosciute che possono rendere un individuo più o meno sensibile di altri.

Quindi, stabilire quanto sia rischioso esporsi a una sostanza chimica, naturale o di sintesi, richiede una valutazione del rapporto tra rischi e benefici. In tale valutazione si deve tenere conto di tanti aspetti: della pericolosità intrinseca della sostanza, delle dosi, della durata dell’esposizione e delle caratteristiche e predisposizioni individuali.

 

Sofia Corradin
Divulgatrice scientifica e medical writer freelance, scrive di medicina e ricerca clinica per testate giornalistiche indirizzate a medici e personale sanitario. È autrice della newsletter 'Appuntamento con la morte' dedicata all'approfondimento sulla scienza della morte e cura il progetto di divulgazione social @lamedicinageniale.
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