Uno sguardo su questa malattia, nelle sue varie forme e manifestazioni, smentendo le credenze del passato e i falsi miti che la circondano.
Nella Grecia antica veniva definita il morbo sacro; in India si pensava fosse causata da impurità; ai suoi sintomi si ispirò Raffaello per dipingere la Trasfigurazione e Dostoevskij, che ne soffriva, la attribuì ai suoi personaggi più tormentati. L’epilessia ha una storia lunga: se ne trovano tracce fin nelle civiltà mediorientali di oltre 4 millenni fa. Molti sono i modi in cui si è cercato nella storia di trattare l’epilessia: le presunte cure, dalla fitoterapia alla trapanazione del cranio, dal digiuno al salasso, riflettono in larga parte le concezioni mediche, teologiche o superstiziose delle diverse epoche. Spesso alle crisi era attribuito un significato mistico o vi si scorgeva l’influenza di forze sovrannaturali malvagie. Solo dall’Illuminismo in poi le cose cambiarono sensibilmente, anche grazie ai progressi in medicina e farmacologia.
Cos’è l’epilessia?
L’epilessia è una malattia cronica che si manifesta principalmente tramite crisi epilettiche (o attacchi), ovvero alterazioni dell’attività cerebrale causate da una scarica elettrica anomala nel cervello. Gli attacchi epilettici sono eventi improvvisi, imprevedibili, in genere brevi e transitori, distinti per esempio da fenomeni come le convulsioni che possono essere provocate in alcuni individui dalla febbre alta o dall’ipoglicemia. In alcuni casi, il paziente può avvertire alcune alterazioni percettive (la cosiddetta aura) poco prima di un attacco. Ciò che caratterizza le crisi è anche l’essere ricorrenti e stereotipate: tendono cioè a ripresentarsi allo stesso modo nel tempo.
La Lega internazionale contro l’epilessia (ILAE) distingue le crisi in due grandi gruppi: crisi a inizio focale, nelle quali è coinvolto solo un emisfero del cervello, che possono compromettere o meno lo stato di coscienza del paziente, e crisi a inizio generalizzato, nelle quali l’attività elettrica anomala è estesa a entrambi gli emisferi cerebrali. In questo caso, la manifestazione clinica coinvolgerà tutto il corpo e si verificherà sempre un’alterazione o una perdita di coscienza.
L’epilessia è una delle disfunzioni neurologiche più frequenti: l’Organizzazione mondiale della sanità stima che ne siano affette circa 50 milioni di persone al mondo (circa una persona su 160). Può insorgere nell’arco di tutta la vita, ma è più frequente in età infantile e dai 70 anni in poi. Solo in circa metà dei casi è possibile determinarne la causa: malformazioni cerebrali, danni perinatali, infezioni o tumori del sistema nervoso centrale, ictus, traumi encefalo-cranici, per esempio. Il rischio di andare incontro a crisi epilettiche è più alto se altri familiari ne hanno già avute in passato.
Come si diagnostica
La diagnosi di epilessia è clinica, e si basa sul resoconto il più preciso possibile di segni e sintomi presentati dal paziente, che idealmente deve includere la descrizione dettagliata di cosa succede prima, durante e dopo le crisi. Dopodiché si procede a un’anamnesi più approfondita, che comprenda le eventuali condizioni mediche rilevanti e la storia familiare, e si procede a un esame fisico e neurologico completo.
Si può decidere di monitorare il paziente per osservare come si svolge una crisi ed effettuare esami neurodiagnostici (come l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica funzionale) per evidenziare le eventuali alterazioni neuronali o possibilmente localizzare l’area cerebrale da cui partono le scariche. Tuttavia il manifestarsi delle crisi è sufficiente di per sé per diagnosticare l’epilessia.
Falsi miti
Molte credenze infondate sull’epilessia persistono anche ai giorni nostri. Le crisi epilettiche, per esempio, non sono sempre gravi: la maggior parte durano meno di due minuti e si risolvono da sole. Solo in pochi casi specifici occorre richiedere l’intervento dei soccorsi: per esempio, se la crisi dura più di cinque minuti, o se gli attacchi si susseguono senza che il paziente riprenda conoscenza, o se la persona si ferisce o colpisce la testa cadendo.
È anche da evitare di introdurre un oggetto in bocca al paziente. Se anche si dovesse mordere la lingua durante una crisi, si tratterà con ogni probabilità di ferite lievi, e qualunque oggetto inserito in bocca rischia solo di ostacolare la respirazione. Non è necessario praticare la respirazione bocca a bocca o altri metodi di ventilazione artificiale: i muscoli respiratori si irrigidiscono per alcuni secondi all’inizio della crisi, ma questa fase è breve e il respiro riprende gradualmente.
Nonostante le crisi epilettiche siano spesso mentalmente associate alle convulsioni (movimenti impulsivi, ripetuti e scoordinati dei muscoli del corpo, detti anche crisi tonico-cloniche), meno di una persona epilettica su quattro ne soffre. Nel caso in cui le convulsioni si manifestino, ogni tentativo di immobilizzare il paziente è inutile e controproducente. È bene invece liberare la zona in cui si trova il paziente per evitare che vada a sbattere contro oggetti contundenti. Una volta terminato l’attacco, è consigliabile posizionarlo su un fianco per permettergli di respirare liberamente.
Infine, non è vero in genere che in ogni crisi epilettica muoiano dei neuroni: il cervello è dotato di meccanismi protettivi dalle scariche che si pensa comincino a perdere efficacia solo dopo circa 30 minuti. In caso di attacchi più brevi, il cervello non riporta alcun danno.
Trattamento e gestione dell’epilessia
L’epilessia è una malattia cronica, ma nella maggioranza dei casi può essere tenuta sotto controllo con appositi farmaci. L’obiettivo fondamentale del trattamento farmacologico è evitare gli attacchi o diminuirne frequenza e gravità. L’assenza di crisi è infatti associata a una prognosi favorevole e a una miglior qualità della vita. In circa il 70 per cento dei casi è sufficiente un unico farmaco antiepilettico, ma a volte è necessario combinarne due o più. La scelta dei farmaci deve comunque essere personalizzata e tenere conto delle caratteristiche del paziente, delle manifestazioni cliniche dell’epilessia e delle eventuali comorbidità (tra cui sono frequenti i disturbi dell’umore e dell’attenzione).
Se anche con due o più farmaci non è possibile tenere le crisi sotto controllo, si parla di epilessia refrattaria e si possono considerare interventi più radicali come la chirurgia (curativa o palliativa), o altri trattamenti complementari approvati come la dieta chetogenica, l’uso di immunoglobuline o corticosteroidi, oppure la stimolazione del nervo vago.
È fondamentale elaborare strategie per migliorare l’autonomia del paziente sia nella gestione del trattamento farmacologico, che va assunto con regolarità, sia nel monitoraggio della condizione. Per esempio è consigliabile redigere un registro nel quale annotare data, ora e durata delle crisi, per aiutare il medico curante a stabilire in modo oggettivo la frequenza e associarne un eventuale aumento a determinati eventi (malattie acute, stress ecc.).
Vi sono poi fattori predisponenti e fattori protettivi. La privazione di sonno è uno tra i principali fattori di rischio: il paziente deve dormire a sufficienza, organizzandosi in modo da recuperare il riposo se necessario. Un altro fattore che rende più probabili le crisi è lo stress, mentre si pensa che l’impatto dell’esposizione a schermi o luci forti o intermittenti sia stato sovrastimato. Infatti, solo il 3 per cento circa delle persone epilettiche presenta fotosensibilità – ossia, la tendenza a sviluppare una crisi in seguito a uno stimolo luminoso. Gran parte degli attacchi attribuiti in precedenza a questi fattori erano dovuti a carenza di sonno, stress o mancata assunzione dei farmaci.
Tra i fattori che riducono il rischio di andare incontro a crisi epilettiche, si trovano alcune raccomandazioni comuni per la popolazione generale: mangiare in modo salutare, vario e bilanciato, limitare quanto più possibile (se non proprio evitare) il consumo di alcolici, e praticare attività fisica in sicurezza, valutandone il tipo e il livello sulla base del proprio quadro clinico.
L’epilessia può avere conseguenze fisiche e psicosociali molto gravi se non è adeguatamente affrontata. I pregiudizi e l’ignoranza di molte persone rispetto alla malattia possono creare in chi ne soffre paura e ostacoli a una vita sociale e relazionale normale. Per questo, oltre alle cure farmacologiche e alle attenzioni nella gestione della malattia, sono necessarie iniziative di informazione e sensibilizzazione rivolte sia alla famiglia, sia al gruppo sociale, scolastico o professionale del paziente.