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Cinque esperimenti scientifici davvero lunghi

Dal 1988 un biologo studia l’evoluzione di 12 popolazioni batteriche. Dal 1948 gli abitanti di una città americana forniscono dati sulle malattie cardiovascolari. Una volpe diventa sempre più simile a un cane in un esperimento di domesticazione che procede dagli anni Cinquanta. Nel 2100 sapremo se alcuni semi sigillati nel 1879 siano ancora in grado di germinare. Dall’agricoltura alla medicina, le storie di alcune ricerche che hanno in comune il fatto di richiedere molta pazienza.

Quanto può durare un esperimento? A questa domanda non è possibile rispondere in modo univoco: i tempi cambiano molto a seconda dell’ambito di ricerca, anche all’interno della stessa disciplina. Possono dipendere da come l’esperimento è stato concepito, dalla frequenza e durata dei fenomeni studiati, dai campioni e dai fondi disponibili per la ricerca. Ci sono, tuttavia, alcuni “fuoriclasse”, cioè degli esperimenti talmente lunghi da essere ancora in corso a decenni di distanza dal loro inizio. Alcuni durano addirittura da più di un secolo. Ne descriviamo cinque tra i più noti.

Una volpe per amica

Come ha fatto il lupo a diventare cane? Il genetista sovietico Dmitrij Belijaev era deciso a scoprirlo e negli anni Cinquanta progettò un esperimento per studiare il processo di domesticazione su un’altra specie non troppo dissimile: la volpe.

Belijaev pensava che in principio gli esseri umani si fossero presi cura di lupi che mostravano un carattere particolarmente mansueto e che questi animali, selezionati in base al comportamento, si fossero poi accoppiati tra loro. Nel corso delle generazioni, i lupi accuditi dagli esseri umani si sarebbero quindi evoluti modificando le proprie caratteristiche fisiche e distinguendosi così dagli esemplari che vivevano allo stato brado. L’ipotesi andava tuttavia provata sperimentalmente. Belijaev, assieme alla sua dottoranda Ljudmila Trut, scelse 30 maschi e 100 femmine di volpe argentata (una varietà della normale volpe col manto più scuro) tra gli esemplari più mansueti che poté trovare negli allevamenti per pellicce. All’Istituto di citologia e genetica di Novosibirsk, in Siberia, cominciò a incrociare gli animali e a selezionare gli individui più mansueti, che a loro volta incrociava tra loro.

Le volpi diventavano sempre più docili, molto simili a cani, e allo stesso tempo cambiava anche il loro aspetto. Zampe più corte, code arricciate, orecchie pendule, variazione del manto: tutti caratteri inutili o svantaggiosi in natura, ma non in compagnia degli umani. Da allora l’esperimento continua – sempre selezionando unicamente la caratteristica della docilità – e ora è la professoressa Ljudmila Trut a dirigerlo. La sua storia è raccontata nel libro Come addomesticare una volpe (Adelphi, 2022)

Una città con il cuore

Fumare, si sa, fa male (anche) al cuore. Ma per proteggere quest’organo bisogna fare attenzione anche al peso, al livello di colesterolo nel sangue, alla pressione arteriosa e non trascurare l’esercizio fisico. Sappiamo anche che un’aspirina a basso dosaggio, se assunta sotto controllo medico, può aiutare alcuni pazienti a prevenire alcune malattie cardiache. Per queste conoscenze (e per molte altre) dobbiamo ringraziare il Framingham Heart Study, cominciato nel lontano 1948.

Allora gli scienziati sapevano poco delle malattie cardiovascolari, che ancora oggi sono la principale causa di morte nel mondo. Il Presidente americano Franklin Delano Roosevelt morì nel 1945 (a soli 63 anni) per un ictus, dopo essere stato a lungo malato anche di poliomielite. Il suo successore, Harry Truman, non ebbe esitazioni a firmare, nel 1948, il National Heart Act, con cui la nazione si impegnava a studiare queste patologie. Il Framingham Heart Study prese avvio nello stesso anno con l’obiettivo primario di identificare i fattori di rischio.

A Framingham, una città del Massachusetts, furono così selezionati 5.209 adulti volontari tra i 30 e i 62 anni, pari a circa i due terzi della popolazione cittadina di allora. Ognuno di loro fu visitato e sottoposto a minuziose interviste sul proprio stile di vita. Da lì in poi, per vent’anni, ogni volontario fu periodicamente riesaminato. Nel 1971 lo studio proseguì con i figli del gruppo originario, e nel 2002 è stata la volta della terza generazione (i nipoti del primo gruppo).

Lo studio ha finora coinvolto oltre 15.000 persone e ha generato migliaia di pubblicazioni scientifiche che hanno cambiato il nostro modo di considerare le malattie cardiovascolari. Le informazioni raccolte e i dati genetici sono stati usati per studiare anche altre patologie, come per esempio il cancro. Il Framingham Heart Study è uno studio epidemiologico: a differenza di una sperimentazione clinica non modifica le variabili prese in considerazione, ma le osserva e le misura soltanto. Ciò nonostante si tratta di studi fondamentali, che permettono di ottenere risultati importanti e statisticamente significativi, dati i grandi numeri di persone studiate.

L’esperimento della goccia di pece

Un esperimento può nascere anche dalla semplice curiosità e dal desiderio di insegnare qualcosa. È il caso del cosiddetto esperimento della goccia di pece, ideato dal professor Thomas Parnell, fisico della University of Queensland a Brisbane (Australia). L’obiettivo era dimostrare ai propri allievi che esistono materiali apparentemente solidi a temperatura ambiente, come la pece di catrame, che in realtà fluiscono molto lentamente. Nel 1927 Parnell versò un campione di pece riscaldata in un imbuto di vetro con il collo sigillato. Dopo tre anni valutò che la pece si fosse assestata nel contenitore e rimosse il sigillo all’imbuto. La prima goccia cadde nel 1938 e, da allora, ne cade una ogni circa 10-12 anni.

Esperimenti simili avevano avuto luogo anche in precedenza, e altri ricercatori ne produssero in seguito imitazioni, ma quello di Parnell è di sicuro il più celebre. Non ha portato a scoperte da capogiro e ha prodotto un solo articolo scientifico in cui si trova una stima della viscosità del liquido. Nel 2005 Parnell è stato insignito del premio Ig Nobel, assegnato annualmente ad autori di ricerche particolarmente strane. Si tratta comunque di un esperimento tutt’altro che inutile. Oltre ad avere uno scopo educativo, esso è diventato un vero e proprio simbolo dell’Università del Queensland. Dal 2014 è disponibile anche un sito per seguire l’“entusiasmante” diretta, in attesa della decima goccia.

I semi di William James Beal

Nel 1879 il professor William James Beal seppellì nel campus della Michigan State University 20 bottiglie di vetro, ognuna delle quali era riempita con sabbia umida e 50 semi di 21 specie di piante tra le più comuni. In queste condizioni i semi erano dormienti, cioè in attesa di germinare, ma la domanda era: per quanto tempo potevano rimanere in quello stato senza deteriorarsi?

Beal cominciò a dissotterrare una bottiglia ogni 5 anni e ogni volta provava a far germinare i semi prendendo nota dei risultati. Quando andò in pensione, nel 1910, l’esperimento fu proseguito dai suoi collaboratori. I successori di Beal decisero di dissotterrare le bottiglie a intervalli di tempo maggiori: a partire dal 1915 cominciarono a farlo ogni 10 anni, e dal 1980 ogni 20. Questo salvo condizioni eccezionali, come è stato nel caso della pandemia da Covid-19. La sedicesima bottiglia, infatti, è stata dissotterrata nel 2021 invece che nel 2020. Gli scienziati hanno agito con il favore delle tenebre, per così dire, perché il luogo in cui si trovano le bottiglie è un segreto ben custodito.

Dall’esperimento sappiamo che non tutte le specie hanno semi ugualmente resistenti. Dopo i primi 100 anni sono spuntate (e fiorite) solo due specie di verbasco e la malva comune. L’ultima volta è spuntato solo il verbasco: germinerà anche il seme della ventesima bottiglia? Lo sapranno, a questo ritmo, i nostri posteri solo nel 2100.

L’evoluzione in laboratorio

La Michigan State University fino a poco tempo fa ospitava un altro famoso esperimento, l’E. coli long-term evolution experiment (LTEE). A idearlo, il professore di microbiologia Richard Lenski, che nel 1988, quando ancora lavorava presso la Università della California a Irvine, inoculò 12 fiasche di vetro con il batterio Escherichia coli. Ogni fiasca conteneva una soluzione nutriente, nella quale i batteri si moltiplicarono fino alla massima densità. Il giorno dopo Lenski prelevò da ogni fiasca l’1 per cento della coltura, che diluì in 12 nuove fiasche con la stessa quantità di nutrienti. Da allora ogni giorno, salvo imprevisti (ma le colonie si possono conservare mediante congelamento), si è ripetuta la stessa procedura, utilizzando l’1 per cento della popolazione contenuta in una fiasca per fondare una nuova colonia.

L’esperimento è un modello semplificato per lo studio dell’evoluzione. Le 12 popolazioni, infatti, hanno cominciato a cambiare in una varietà di modi sotto gli occhi dei ricercatori. I dati raccolti potrebbero essere utili anche in altri ambiti oltre allo studio dell’evoluzione. Per esempio, alcuni scienziati fanno notare che le cellule di tumore evolvono per certi versi in maniera simile alle colonie batteriche. Esperimenti come questo potrebbero essere dunque un modello per lo studio del cancro. Negli anni Novanta l’esperimento si è trasferito, assieme a Lenski, alla Michigan State University, mentre dal 2022 il testimone è passato al collega Jeff Barrick della University of Texas a Austin. Lenski si augura che l’esperimento possa proseguire per un tempo indefinito.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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