È a questo passo che, nel mondo, le donne muoiono nel corso della gravidanza, durante o poco dopo il parto. In molti Paesi i problemi legati alla salute riproduttiva e sessuale e le forti disparità nell’accesso all’assistenza sanitaria di base sono ancora tanti. Troppi. Un’analisi delle stime più recenti mette a fuoco la situazione negli ultimi vent’anni.
Nel mondo ogni giorno 800 donne muoiono per le complicazioni legate al parto o alla gravidanza. Una ogni due minuti. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stimato che nel solo 2020 siano avvenuti 287.000 decessi, la maggior parte dei quali si sarebbe potuta prevenire. E rispetto agli anni subito precedenti la situazione è migliorata ben poco, nonostante i buoni propositi. Basti pensare che nel 2016, quando sono entrati in vigore gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (“Sustainable Development Goals”, o SDG), con l’obiettivo di una netta riduzione della mortalità materna, le morti per queste cause erano state 309.000, un numero non molto distante.
Di questo passo, se non si interverrà adeguatamente nella prevenzione e nella tutela della salute femminile in generale, si verificheranno ancora almeno un milione di morti materne da qui al 2030.
Le cose non stanno andando bene
A descrivere la situazione è il rapporto dal titolo “Trends in maternal mortality 2000 to 2020”, pubblicato il 23 febbraio 2023 da alcune agenzie delle Nazioni Unite e frutto del lavoro di OMS, UNICEF, UNFPA, World Bank Group e UNDESA/Population Division. Nel lavoro sono considerati i numeri registrati delle morti materne a livello nazionale, regionale e globale dall’anno 2000 al 2020. Si tratta delle stime più affidabili e aggiornate sul tema. I Paesi e territori inclusi nello studio sono 185, la quasi totalità con una popolazione superiore ai 100.000 abitanti.
Dal 2000 al 2015 la riduzione di mortalità materna è stata significativa in 130 Paesi. Si è persino dimezzata in 57 nazioni e ridotta di due terzi in 18, mentre è aumentata negli Stati Uniti, in Venezuela, Repubblica Dominicana, Benin e Giamaica. Nei cinque anni dal 2016 al 2020 invece la situazione è generalmente peggiorata: si è registrata una significativa riduzione della mortalità in soli 31 Paesi, uno stallo in 133 e un aggravamento della situazione in 17. Sette di questi ultimi sono situati nella macroregione di America latina e Caraibi, 3 in Europa e Stati Uniti e 3 in Africa subsahariana.
Negli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile si punta a una riduzione della mortalità materna a meno di 70 casi su 100.000 nascite entro il 2030. Purtroppo si stima che nel 2020 ci siano stati ben 223 decessi materni ogni 100.000 nati vivi, segno che la salute riproduttiva delle donne ha subito battute d’arresto preoccupanti. Solo Australia, Bielorussia e Seychelles sono stati in linea con le previsioni. Se proseguirà come nel periodo 2016-2020, si calcola che la mortalità per queste cause sarà di oltre 3 volte se non, nella migliore delle ipotesi, più del doppio rispetto agli obiettivi fissati.
Disuguaglianze che pesano
Al di là delle tendenze globali, vi sono forti disparità tra le diverse regioni e tra Paesi all’interno delle stesse regioni. Si muore di più di parto e durante la gravidanza nelle aree più povere e nei Paesi che soffrono situazioni di instabilità prolungata. La forbice separa nettamente le nazioni ad alto reddito, con mediamente 12 morti materne su 100.000 nati vivi, da quelli a basso reddito, dove la conta si impenna fino a 430.
Nel 2020, circa il 70 per cento delle morti materne è avvenuto in Africa subsahariana. Lì il tasso di decessi su 100.000 nati vivi è stimato a 545. In Sud Sudan, Ciad e Nigeria il tasso di mortalità materna supera persino i 1.000 ogni 100.000. A seguire l’Africa subsahariana ci sono Asia centrale e meridionale, che costituiscono circa il 17 per cento dei casi. Sebbene solo il 13 per cento della popolazione mondiale abiti nei Paesi meno sviluppati, proprio qui si è registrata quasi la metà di tutte le morti materne avvenute nel 2020, a sottolineare che il reddito incide in modo significativo sul problema.
Le crisi umanitarie, le situazioni di conflitto, i disastri e anche l’impatto dei cambiamenti climatici non sono da meno. La media nei nove Paesi col più alto indice di allerta per crisi umanitarie nel 2020 – Yemen, Somalia, Sud Sudan, Repubblica araba siriana, Repubblica democratica del Congo, Repubblica centrafricana, Ciad, Sudan e Afghanistan – era di 551 morti materne ogni 100.000 nati vivi. Più del doppio rispetto a quella globale.
Anche l’epidemia di Covid-19 nel 2020 potrebbe aver contribuito all’arresto dei progressi sulla salute materna, oltre al fatto che l’infezione in sé può portare complicazioni nelle donne in stato di gravidanza. L’OMS precisa però che saranno necessari ulteriori dati per quantificare il reale impatto della pandemia su questo fronte.
Cosa porta alla morte materna
L’OMS usa l’espressione morte materna riferendosi alle donne che perdono la vita per qualunque causa (escluse quelle accidentali) associata alla gravidanza, o aggravata da essa o dalla sua gestione. Quindi include qualunque avvenimento nel corso della gestazione, durante il parto ed entro i 42 giorni successivi.
Dal punto di vista medico, nel 75 per cento dei casi è provocata da emorragie gravi, ipertensione, infezioni (spesso dopo il parto), oppure è la conseguenza di aborti non sicuri e di condizioni di salute aggravate dalla gravidanza, come per esempio l’AIDS e la malaria. Con un’assistenza sanitaria adeguata, gran parte di queste complicazioni e condizioni potrebbero essere prevenute o curate.
Passare all’azione
Da tempo abbiamo le conoscenze e le pratiche cliniche necessarie per evitare questi decessi, ma il problema è che molte, anzi troppe, donne non vi hanno accesso. Le ragioni sono molteplici: a volte non riescono a raggiungere in tempo un ospedale, o a ricevere medicinali e interventi essenziali di qualità (per esempio per ridurre il rischio di sanguinamento post-parto). In altri casi non hanno a disposizione strutture in buone condizioni igieniche. Per contenere i numeri di queste complicazioni è peraltro essenziale che le donne possano evitare il più possibile le gravidanze indesiderate, potendo accedere, anche da adolescenti, agli anticoncezionali e a pratiche di aborto legali e sicure.
Il divario riguarda anche altri aspetti della salute ginecologica. Ne è un esempio il cancro della cervice, il quarto tumore più diffuso nelle donne a livello globale, che sarebbe il più delle volte prevenibile se alle donne fossero offerti appositi programmi di screening e la vaccinazione contro il virus del papilloma umano (HPV), dato che il virus è il principale responsabile di questo tipo di tumore. Nel 2020 il 90 per cento dei casi e dei decessi per questa causa ha interessato donne di Paesi a basso e medio reddito, dove le possibilità di prevenzione sono spesso ancora mediocri o inesistenti.
È necessario dunque rafforzare, con nuovi investimenti, l’assistenza sanitaria di base e rendere i servizi sanitari più resilienti. Ma bisogna anche lavorare per abbattere le barriere di genere e rivendicare i diritti e le opportunità delle donne, al fine di tutelare l’accesso ai servizi di salute sessuale, permettere loro di sopravvivere alle gravidanze e poter guardare al futuro. Un futuro che nel tempo di lettura di questo articolo a due donne, o forse più, è già stato portato via.