Perché alcune specie animali hanno vite lunghissime? E quali meccanismi biologici si celano dietro alle differenze di longevità?
A un estremo della scala della longevità animale c’è una piccola medusa di 4-5 millimetri di diametro, chiamata Turritopsis nutricula, originaria dei Caraibi e poi diffusasi in tutto il mondo. Come avviene in molti idrozoi (la classe alla quale appartiene la sua specie), questo animale attraversa una fase in cui si trova allo stato di polipo, a riproduzione asessuata, e una fase successiva in cui ha invece forma di medusa, che si conclude con la riproduzione sessuata. Di solito, giunti a questo punto, gli idrozoi si avviano alla conclusione della loro vita, ma, come hanno scoperto gli scienziati, per Turritopsis nutricula questo non accade: dopo aver raggiunto la maturità sessuale, la medusa è in grado di “riportare indietro” le lancette del suo orologio biologico, tornare allo stadio di polipo e dar vita a una nuova colonia.
Non sono noti altri casi di specie nel regno animale in grado di tornare a uno stadio di immaturità sessuale in colonie dopo aver raggiunto la maturità sessuale come individuo solitario. Sembra che questa capacità eccezionale sia dovuta a un meccanismo cellulare che gli scienziati hanno chiamato transdifferenziazione: alcuni stimoli ambientali inducono le cellule di Turritopsis nutricula a riacquistare la capacità, tipica delle cellule staminali, di essere totipotenti, cioè di moltiplicarsi e differenziarsi in cellule diverse. In linea teorica – anche se saranno necessari altri studi per poter approfondire il fenomeno – il ciclo potrebbe ripetersi all’infinito, rendendo la medusa, di fatto, immortale (caratteristica che l’ha resa una celebrità non solo tra i biologi).
Il primato della longevità tra i vertebrati sembrerebbe invece essere detenuto dallo squalo della Groenlandia, che può arrivare a 400 anni circa, seguito dalla balena della Groenlandia, che può vivere fino a più o meno 200 anni.
All’estremo opposto della scala di longevità ci sono organismi come quelli che fanno parte del phylum Gastrotricha, piccoli animali acquatici il cui intero ciclo vitale dura pochi giorni. Oppure, ancora, le famose effimere, ovvero gli insetti che rientrano nell’ordine degli Ephemeroptera, il cui nome, di origine greca, significa “che dura lo spazio di un giorno”. In effetti solitamente la vita di questi insetti adulti dura anche meno di un giorno, impiegato nella riproduzione (mentre la vita dello stato larvale è proporzionalmente molto lunga: in media un anno, ma può anche arrivare fino a due anni).
Cosa determina la durata della vita
Le enormi differenze nella durata della vita degli animali hanno da sempre attirato l’attenzione degli esseri umani, nella speranza che le ricerche sui meccanismi alla base della maggiore o minore longevità possano rivelare il segreto per una vita lunga e possibilmente in salute.
Molte delle conoscenze sulla fisiologia animale derivano però da studi su specie animali facili da gestire e allevare e con una durata della vita piuttosto breve, un grosso limite se si vogliono studiare aspetti come la longevità e le conseguenze dell’invecchiamento.
Per questo alcuni ricercatori hanno deciso invece di concentrarsi sugli animali che presentano una vita eccezionalmente lunga, nella speranza di poter carpire i meccanismi biologici che sono alla base di questa caratteristica.
Un primo aspetto messo in evidenza dagli studi riguarda il rapporto tra longevità, metabolismo e dimensioni dell’animale: se si confronta la taglia di un animale con la durata media della sua vita, sembrerebbe di poter desumere che gli animali più grandi, e con un metabolismo più lento, vivano più a lungo degli animali di taglia più piccola, con un metabolismo più veloce. Il procedere degli studi ha, però, messo in evidenza come questa sia una generalizzazione impropria, date le numerose eccezioni a questa regola: animali con dimensioni simili e durata della vita significativamente diversa o viceversa.
Altre ricerche hanno portato a ipotizzare che meccanismi evolutivi abbiano reso più longeve le specie che hanno meno probabilità di morire precocemente: per le specie più esposte a questi rischi, infatti, un investimento di energia e risorse sulla longevità sarebbe poco conveniente dal punto di vista evolutivo. Questo potrebbe spiegare la differenza di longevità tra specie come il topo e la talpa nuda (o eterocefalo glabro): pur avendo dimensioni simili, la talpa, più longeva, rispetto al topo è meno esposta ai predatori poiché vive sottoterra. Analogamente si potrebbe spiegare l’eccezionale longevità dei pipistrelli, che sono capaci di sfuggire ai predatori attraverso il volo. Da tempo i pipistrelli sono studiati dagli scienziati, nel tentativo di capire quali meccanismi si celino dietro la durata della loro vita.
Un altro studio ha messo invece in evidenza come la longevità possa essere collegata al numero di neuroni corticali, che agiscono su vari fattori. Il segreto della longevità si nasconderebbe, quindi, nel cervello. Anche nella specie umana, secondo questo studio, è possibile osservare una correlazione tra longevità e numero di questi neuroni.
Indicatori di longevità
Sicuramente fondamentale per la longevità è la capacità dell’organismo (anche di quello umano) di riparare i danni al DNA che si verificano nel corso del tempo e che, nel loro insieme, contribuiscono al processo di invecchiamento.
Nello specifico, nel caso dei pipistrelli ma anche di diverse altre specie animali studiate, è emerso un collegamento tra la lunghezza dei telomeri ‒ e il loro tasso di accorciamento nel corso del tempo ‒ e la durata della vita. I telomeri sono la parte terminale dei cromosomi e sono costituiti dalla ripetizione di brevi sequenze di nucleotidi, cioè le singole unità che compongono il DNA (e gli altri acidi nucleici). Hanno un’importante funzione protettiva, in quanto evitano, di fatto, che nel corso della replicazione del DNA si perda informazione genetica. In molte specie animali i telomeri vanno accorciandosi nel corso della vita, e la velocità con cui si riducono è collegata al processo di senescenza.
Alcuni studi sono andati invece in un’altra direzione, indagando il possibile ruolo del DNA ribosomiale nel determinare durata della vita, invecchiamento e longevità. Certi ricercatori hanno anche proposto che esista un orologio biologico basato proprio su questo fattore. Il DNA ribosomiale sembra inoltre implicato nella stabilità delle proteine e nella resistenza allo stress ossidativo, in base ai risultati ottenuti in studi sulla talpa nuda. I fattori in gioco sono però davvero numerosi e non tutti ancora pienamente indagati, anche dal punto di vista delle loro interazioni.
In numerose specie animali si verifica poi il fenomeno della maggiore longevità delle femmine rispetto ai maschi: nei mammiferi gli studi sembrerebbero indicare che la causa risieda nel rapporto tra condizioni ambientali e fattori collegati alla riproduzione e alla cura della prole, mentre un’indagine sui moscerini punta il dito su alcune caratteristiche tipiche del cromosoma Y.
Infine, i risultati ottenuti da un altro filone di ricerca hanno messo in evidenza il fatto che, nei primati umani e non solo, il tasso di invecchiamento non sembra essere variato nel tempo. Infatti, mentre nelle popolazioni umane del passato l’aspettativa di vita era ridotta dalla forte mortalità infantile e precoce, contro la quale la medicina ha fatto passi da gigante, il tasso di invecchiamento non è invece variato. In altre parole, gli anni di longevità media guadagnati dalla popolazione umana sono dovuti soprattutto al fatto che molti non sono morti da bambini.